In questo periodo natalizio di scambio di regali, mi torna alla mente un vecchio quesito di Rudi Mathematici.
Prendete due pezzi di Lego del tipo 1×x (con x maggiore di 1), attaccateli in modo che abbiano un solo attacco in comune, e fateli ruotare in modo da ottenere un angolo acuto che sia il più piccolo possibile.
Bene: quanto misura questo angolo?
Il testo è tutto qui, non ci sono altri dati; per essere più precisi, non è necessario cercare altri dati, la risposta è unica, purché si tenga conto di un dettaglio costruttivo (facilmente verificabile andando a recuperare due mattoncini dei Lego): l'incastro a forma di cilindretto utilizzato per attaccare i pezzi uno sopra l'altro ha il raggio più grande possibile. Un pezzo di Lego “da uno”, una volta incastrato su un qualunque altro pezzo, può ruotare su sé stesso liberamente, sfiorando i cilindretti che gli stanno intorno.
Mi sono divertito a costruire la figura di due pezzi 1×2 incastrati uno sull'altro e ruotati come richiesto dal quesito. Il fatto notevole è che questa costruzione può essere effettuata con riga e compasso, senza numeri.
Eccola qua:
A suo tempo feci il calcolo dell'ampiezza dell'angolo. Il risultato è:
E questa è, senza dubbio, una costante universale.
sabato 29 dicembre 2012
lunedì 24 dicembre 2012
People hearing without listening
(continua da qui)
4. Venne un altro ministro, che modificò radicalmente il quadro orario delle superiori. Tolse tante sperimentazioni, e ridusse il numero di ore di lezione durante la settimana. Per quanto riguarda matematica, ci disse che in terza le ore sarebbero passate da 4 a 3, ma poi si sarebbe aggiunta una nuova materia, denominata complementi di matematica, per un'ora in più alla settimana. Da 4 saremmo gattopardescamente passati a 3+1.
Diamo un'occhiata ai programmi, ci siamo detti noi docenti, per capire un po' cosa sarebbe cambiato. Non sto qui a farvi vedere lo schema della suddivisione degli argomenti, ma vi farò solo un esempio riguardante uno specifico argomento.
Matematica: funzioni logaritmiche.
Complementi di matematica: il logaritmo in base e.
[Per i non addetti ai lavori: sarebbe come scrivere, in un programma di grammatica, la voce "articoli determinativi", e in un ipotetico programma di complementi di grammatica, la voce "l'articolo lo"]
5. Nel mondo della scuola 3+1 non fa 4, sarebbe troppo facile. Una materia in più significa tante cose, tutte quante aventi a che fare con la burocrazia. Per questo motivo (e per altri problemi analoghi in altre materie) invitammo a scuola un super esperto, uno di quelli che erano nella commissione riforma e avevano pensato, nel dettaglio, a queste modifiche. Quella che segue è una trascrizione il più possibile fedele della nostra richiesta di chiarimenti.
«Abbiamo un problemino».
«Dite pure».
«Con questa nuova materia, complementi di matematica, come dobbiamo comportarci? Abbiamo due voti? Perché se una insufficienza in matematica è un problema, due sono ancora peggio».
«Ma no, ma non importa, ma figuriamoci. Lo scopo non era questo, si voleva introdurre una materia che mostrasse l'applicazione della matematica nella tecnica [il lettore non dimentichi il logaritmo in base e citato poco fa]».
«No, va bene, certo, ma in pagella quindi come facciamo?».
«Guardate, voi dite all'ufficio scolastico regionale che mettete un voto unico [i capelli della preside si rizzano come se qualcuno le avesse collegato un generatore di Van der Graaf alle orecchie]».
«Ma possiamo?».
«Voi dite così, e se loro hanno delle idee migliori ve le fate raccontare».
«Ehm, ok. Ma se ci fossero due insegnanti?».
«In che senso?».
«Eh, nel senso che potremmo avere un insegnante che insegna matematica e uno che insegna complementi, ha presente la faccenda delle 18 ore?».
«Ah, non ci avevo pensato [rileggete pure quanto volete, questa è una citazione esatta]».
«Perché con due insegnanti non si può mica mettere un voto unico».
«Eh, no».
«E quindi?».
«Guardate, devo dire che, quando in commissione si decise per inserire i complementi di matematica, io ero assente [giuro, ha detto così, davvero]. Ma mi informerò e vi saprò dire».
5. Non ci seppe mai dire nulla, ma ci pensò il ministero in persona, con due comunicazioni. Fino all'anno scorso, per molte materie comparivano due voti nella pagella del primo quadrimestre: uno voto per lo scritto e uno per l'orale.
A inizio anno scolastico il ministero ci disse che, nelle classi interessate dalla riforma, non avremmo più dovuto mettere due voti in pagella, ma uno solo. Va bene, quindi avremmo avuto un voto per matematica e uno per complementi.
Poi, i primi di dicembre [dicembre, non settembre], ci disse che il voto di complementi si sarebbe dovuto fondere con quello di matematica. Quindi un solo voto, anche se ci sono due insegnanti diversi.
Se non vi è chiara l'implicazione, immaginate per un momento di tornare a scuola e di avere un insegnante di matematica che non vi dà il voto. Ecco.
4. Venne un altro ministro, che modificò radicalmente il quadro orario delle superiori. Tolse tante sperimentazioni, e ridusse il numero di ore di lezione durante la settimana. Per quanto riguarda matematica, ci disse che in terza le ore sarebbero passate da 4 a 3, ma poi si sarebbe aggiunta una nuova materia, denominata complementi di matematica, per un'ora in più alla settimana. Da 4 saremmo gattopardescamente passati a 3+1.
Diamo un'occhiata ai programmi, ci siamo detti noi docenti, per capire un po' cosa sarebbe cambiato. Non sto qui a farvi vedere lo schema della suddivisione degli argomenti, ma vi farò solo un esempio riguardante uno specifico argomento.
Matematica: funzioni logaritmiche.
Complementi di matematica: il logaritmo in base e.
[Per i non addetti ai lavori: sarebbe come scrivere, in un programma di grammatica, la voce "articoli determinativi", e in un ipotetico programma di complementi di grammatica, la voce "l'articolo lo"]
5. Nel mondo della scuola 3+1 non fa 4, sarebbe troppo facile. Una materia in più significa tante cose, tutte quante aventi a che fare con la burocrazia. Per questo motivo (e per altri problemi analoghi in altre materie) invitammo a scuola un super esperto, uno di quelli che erano nella commissione riforma e avevano pensato, nel dettaglio, a queste modifiche. Quella che segue è una trascrizione il più possibile fedele della nostra richiesta di chiarimenti.
«Abbiamo un problemino».
«Dite pure».
«Con questa nuova materia, complementi di matematica, come dobbiamo comportarci? Abbiamo due voti? Perché se una insufficienza in matematica è un problema, due sono ancora peggio».
«Ma no, ma non importa, ma figuriamoci. Lo scopo non era questo, si voleva introdurre una materia che mostrasse l'applicazione della matematica nella tecnica [il lettore non dimentichi il logaritmo in base e citato poco fa]».
«No, va bene, certo, ma in pagella quindi come facciamo?».
«Guardate, voi dite all'ufficio scolastico regionale che mettete un voto unico [i capelli della preside si rizzano come se qualcuno le avesse collegato un generatore di Van der Graaf alle orecchie]».
«Ma possiamo?».
«Voi dite così, e se loro hanno delle idee migliori ve le fate raccontare».
«Ehm, ok. Ma se ci fossero due insegnanti?».
«In che senso?».
«Eh, nel senso che potremmo avere un insegnante che insegna matematica e uno che insegna complementi, ha presente la faccenda delle 18 ore?».
«Ah, non ci avevo pensato [rileggete pure quanto volete, questa è una citazione esatta]».
«Perché con due insegnanti non si può mica mettere un voto unico».
«Eh, no».
«E quindi?».
«Guardate, devo dire che, quando in commissione si decise per inserire i complementi di matematica, io ero assente [giuro, ha detto così, davvero]. Ma mi informerò e vi saprò dire».
5. Non ci seppe mai dire nulla, ma ci pensò il ministero in persona, con due comunicazioni. Fino all'anno scorso, per molte materie comparivano due voti nella pagella del primo quadrimestre: uno voto per lo scritto e uno per l'orale.
A inizio anno scolastico il ministero ci disse che, nelle classi interessate dalla riforma, non avremmo più dovuto mettere due voti in pagella, ma uno solo. Va bene, quindi avremmo avuto un voto per matematica e uno per complementi.
Poi, i primi di dicembre [dicembre, non settembre], ci disse che il voto di complementi si sarebbe dovuto fondere con quello di matematica. Quindi un solo voto, anche se ci sono due insegnanti diversi.
Se non vi è chiara l'implicazione, immaginate per un momento di tornare a scuola e di avere un insegnante di matematica che non vi dà il voto. Ecco.
domenica 23 dicembre 2012
Hello darkness, my old friend
Questa storia, che riguarda la scuola italiana, è suddivisa in varie parti che ripercorrono i contributi dati dai vari ministri allo scopo di renderla… bé, giudicate voi e completate la frase a vostro piacimento.
1. C'era una volta, ai tempi in cui io ero studente, il concetto di continuità didattica. Secondo tale ispirato principio, un insegnante avrebbe dovuto mantenere, in anni successivi, le classi avute in precedenza, fino al completamento del ciclo scolastico. Tradotto in parole povere: chi si prende la seconda, quest'anno? Chi ha insegnato in prima l'anno scorso, perché conosce gli studenti, può proseguire il programma, non deve ricominciare, e così via.
(per chi ha fretta e ha capito: potete saltare al punto 2)
Nella scuola in cui insegno le cattedre erano organizzate, quindi, nel modo seguente. In prima c'erano 5 ore di matematica, e così anche in seconda, in terza ce n'erano 4, in quarta 3 e in quinta ancora 3. Un insegnante si poteva prendere, per esempio, una prima, una seconda, una terza e una quarta (5+5+4+3=17), l'anno dopo una nuova prima, la seconda che aveva l'anno precedente quando era una prima, la quarta — che era la terza — e la quinta — che era la quarta — (5+5+3+3=16).
L'anno successivo quell'insegnante avrebbe avuto la prima, la seconda, la terza e la quinta (5+5+4+3=17), e poi il ciclo sarebbe ricominciato, mantenendo sempre la continuità didattica. Non ho specificato che, nella mia scuola, la terza è una classe nuova: dopo il biennio gli studenti vengono smistati nelle terze di indirizzo, quindi non si ha continuità sulla terza.
2. Come la mettiamo col fatto che gli insegnanti devono fare 18 ore di lezione? Negli esempi qui sopra questo non succede mai, si arriva a 17 o addirittura a 16 ore: e le altre? Bé, ai tempi esisteva un altro concetto importante: quello di ore a disposizione. Nell'orario dell'insegnante erano inserite alcune ore (dette, appunto, ore a disposizione) in cui si doveva essere a scuola, disponibili a sostituire colleghi assenti, oppure a fare assistenza agli alunni che non volevano avvalersi dell'insegnamento della religione. Poteva capitare, ogni tanto, di non avere lezione in una di quelle ore: bisognava comunque essere a scuola disponibili, in caso di imprevisti.
3. Venne un ministro che stabilì che le ore a disposizione dovessero essere abolite. Gli orari dovevano essere composti da 18 ore effettive di lezione. Come si poteva fare, nella nostra scuola? Gli insegnanti più anziani (quelli più avanti nella graduatoria, quelli che "scelgono per primi") potevano cavarsela con un (5+5+5+3), ma con qualche problema: non ci sarebbero state abbastanza classi da 5 ore per tutti. Qualcuno si sarebbe preso una 4+4+4+3+3, ad esempio (una classe in più significa più consigli, più compiti, più ricevimenti, ma pazienza: chi viene dopo in graduatoria è giovane e si arrangia, quando sarà vecchio e non ce la farà più potrà avere una classe in meno); ma il problema più grosso è che molte continuità didattiche sarebbero saltate. Gli studenti di terza non avrebbero avuto lo stesso insegnante in quarta e in quinta, ad esempio.
Con questo sistema il ministro ottenne un risparmio di denaro: le ore a disposizione non esistevano più e, quindi, non erano da pagare. Il rendimento di qualche insegnante, però, subì un certo calo: come pensate che sia insegnare gli stessi argomenti a sei classi uguali (6×3=18 — caro insegnante, quest'anno hai sei quinte, spieghi le stesse cose e poi le porti anche all'esame)?
E come si fa con le supplenze? Bé, qualche ora a disposizione rimane comunque: a volte i conti non tornano e rimane qualche cattedra a meno di 18 ore, e se non ci sono abbastanza insegnanti, bé, convinciamo gli studenti che non fanno religione a uscire dalla scuola, o mettiamoli tutti in un'aula senza nessuno che li controlli (come? attività alternative? non scherziamo, dai). E se non si riesce a sostituire l'insegnante ammalato, via, distribuiamo gli studenti nelle altre classi (come? più di 30 studenti in un'aula? in due in un banco? e la sicurezza? le norme? non scherziamo, dai). Se proprio è necessario, la scuola paghi pure qualche insegnante per le ore critiche (le prime, ad esempio), l'importante è che non le paghi il ministero.
Fino all'anno scorso le cose stavano così. Poi, per quanto riguarda matematica, c'è stata una novità. Visto che questo post è già esageratamente lungo, la racconto nel prossimo.
1. C'era una volta, ai tempi in cui io ero studente, il concetto di continuità didattica. Secondo tale ispirato principio, un insegnante avrebbe dovuto mantenere, in anni successivi, le classi avute in precedenza, fino al completamento del ciclo scolastico. Tradotto in parole povere: chi si prende la seconda, quest'anno? Chi ha insegnato in prima l'anno scorso, perché conosce gli studenti, può proseguire il programma, non deve ricominciare, e così via.
(per chi ha fretta e ha capito: potete saltare al punto 2)
Nella scuola in cui insegno le cattedre erano organizzate, quindi, nel modo seguente. In prima c'erano 5 ore di matematica, e così anche in seconda, in terza ce n'erano 4, in quarta 3 e in quinta ancora 3. Un insegnante si poteva prendere, per esempio, una prima, una seconda, una terza e una quarta (5+5+4+3=17), l'anno dopo una nuova prima, la seconda che aveva l'anno precedente quando era una prima, la quarta — che era la terza — e la quinta — che era la quarta — (5+5+3+3=16).
L'anno successivo quell'insegnante avrebbe avuto la prima, la seconda, la terza e la quinta (5+5+4+3=17), e poi il ciclo sarebbe ricominciato, mantenendo sempre la continuità didattica. Non ho specificato che, nella mia scuola, la terza è una classe nuova: dopo il biennio gli studenti vengono smistati nelle terze di indirizzo, quindi non si ha continuità sulla terza.
2. Come la mettiamo col fatto che gli insegnanti devono fare 18 ore di lezione? Negli esempi qui sopra questo non succede mai, si arriva a 17 o addirittura a 16 ore: e le altre? Bé, ai tempi esisteva un altro concetto importante: quello di ore a disposizione. Nell'orario dell'insegnante erano inserite alcune ore (dette, appunto, ore a disposizione) in cui si doveva essere a scuola, disponibili a sostituire colleghi assenti, oppure a fare assistenza agli alunni che non volevano avvalersi dell'insegnamento della religione. Poteva capitare, ogni tanto, di non avere lezione in una di quelle ore: bisognava comunque essere a scuola disponibili, in caso di imprevisti.
3. Venne un ministro che stabilì che le ore a disposizione dovessero essere abolite. Gli orari dovevano essere composti da 18 ore effettive di lezione. Come si poteva fare, nella nostra scuola? Gli insegnanti più anziani (quelli più avanti nella graduatoria, quelli che "scelgono per primi") potevano cavarsela con un (5+5+5+3), ma con qualche problema: non ci sarebbero state abbastanza classi da 5 ore per tutti. Qualcuno si sarebbe preso una 4+4+4+3+3, ad esempio (una classe in più significa più consigli, più compiti, più ricevimenti, ma pazienza: chi viene dopo in graduatoria è giovane e si arrangia, quando sarà vecchio e non ce la farà più potrà avere una classe in meno); ma il problema più grosso è che molte continuità didattiche sarebbero saltate. Gli studenti di terza non avrebbero avuto lo stesso insegnante in quarta e in quinta, ad esempio.
Con questo sistema il ministro ottenne un risparmio di denaro: le ore a disposizione non esistevano più e, quindi, non erano da pagare. Il rendimento di qualche insegnante, però, subì un certo calo: come pensate che sia insegnare gli stessi argomenti a sei classi uguali (6×3=18 — caro insegnante, quest'anno hai sei quinte, spieghi le stesse cose e poi le porti anche all'esame)?
E come si fa con le supplenze? Bé, qualche ora a disposizione rimane comunque: a volte i conti non tornano e rimane qualche cattedra a meno di 18 ore, e se non ci sono abbastanza insegnanti, bé, convinciamo gli studenti che non fanno religione a uscire dalla scuola, o mettiamoli tutti in un'aula senza nessuno che li controlli (come? attività alternative? non scherziamo, dai). E se non si riesce a sostituire l'insegnante ammalato, via, distribuiamo gli studenti nelle altre classi (come? più di 30 studenti in un'aula? in due in un banco? e la sicurezza? le norme? non scherziamo, dai). Se proprio è necessario, la scuola paghi pure qualche insegnante per le ore critiche (le prime, ad esempio), l'importante è che non le paghi il ministero.
Fino all'anno scorso le cose stavano così. Poi, per quanto riguarda matematica, c'è stata una novità. Visto che questo post è già esageratamente lungo, la racconto nel prossimo.
lunedì 17 dicembre 2012
Ma perché proprio le frequenze? — come funzionano gli mp3
La domanda era: abbiamo davvero bisogno di tutte quelle frequenze? Cioè, ok, un suono bello, ricco, piacevole da ascoltare, è composto da tante onde “pure”, ognuna delle quali dà un piccolo contributo al risultato finale. Ma davvero il nostro orecchio riesce a percepirle tutte?
Qui si entra nel mondo della psicoacustica, che sarebbe (scopiazzando la definizione da wikipedia) lo studio della psicologia della percezione acustica. Insomma: cosa è per noi la musica? Cosa sentiamo davvero? I suoni esistono solo se li ascoltiamo? Se un albero cade in una foresta e nessuno assiste alla scena, la vecchina del piano di sotto verrà ugualmente a brontolare perché non si possono spostare i mobili a mezzanotte?
Bene, la filosofia della compressione mp3 (e di tutta la categoria di algoritmi di compressione detti a perdita di informazione) è questa: se una cosa non si sente, non esiste. Se quella frequenza non è percepibile dall'orecchio, allora la sua presenza è inutile: buttiamola via. Se devo registrare lo sparo di un cannone, è inutile che memorizzi anche il suono della mosca che volava lì vicino.
A grandi linee (molto grandi), un codificatore mp3 fa questo: prende in ingresso l'onda, la trasforma nell'elenco delle frequenze componenti, butta via le frequenze inutili, e produce un file decisamente più piccolo rispetto all'originale.
Anche se il file risultante è diverso dall'originale, l'orecchio umano non se ne accorge. O, almeno, non dovrebbe. Certamente non se ne accorgono i giovani d'oggi che ascoltano la musica in coppia, dividendosi le cuffie da buoni amici, un auricolare per uno (signora mia, dove andremo a finire? Nemmeno conoscono il concetto di stereofonia). Più difficile è affermare che nessuno se ne accorge: personalmente ho fatto una prova con un amico che possiede un impianto audio che costa di più della mia automobile, gli ho dato un cd contenente alcuni brani registrati sia in formato originale, sia passati attraverso la codifica/decodifica mp3, e lui ha saputo distinguerli.
Ecco, comunque, una prova oggettiva: ho preso il file contenente il la a 220 Hz suonato da una chitarra, file che avevo già usato nel post precedente, e l'ho compresso in formato mp3. Poi ho disegnato lo spettro. Eccoli qua, quello originale e quello dopo la compressione:
Si vede bene che nella parte sinistra sembrano uguali, ma poi nella parte destra cambiano notevolmente. Il file mp3, ad esempio, non contiene informazioni per le frequenze superiori ai 16000 Hz (tanto chi le sente?).
Credo che ci sia una morale, in questa faccenda dell'evoluzione del modo in cui viene memorizzata la musica. Da ragazzini, i miei amici ed io sapevamo cosa fosse una puntina di un giradischi, qualcuno sapeva anche distinguere tra magnete mobile e bobina mobile, andavamo nei negozi ad ammirare oggetti per noi proibiti, robe con nomi esotici come amplificatori valvolari in classe A, bracci tangenziali, diffusori elettrostatici, preamplificatori phono. E, quando ascoltavamo della musica, al massimo ogni venti minuti dovevamo alzarci per girare il disco.
Cercavamo la migliore fedeltà possibile e, adesso che abbiamo una tecnologia che ci permetterebbe di portarci una sala da concerto in casa, ci accontentiamo di poche frequenze trasmesse da un auricolare in un orecchio (bah, forse la morale è che sto invecchiando).
Se una farfalla batte le ali a Pechino, a New York nessuno la sente.
Qui si entra nel mondo della psicoacustica, che sarebbe (scopiazzando la definizione da wikipedia) lo studio della psicologia della percezione acustica. Insomma: cosa è per noi la musica? Cosa sentiamo davvero? I suoni esistono solo se li ascoltiamo? Se un albero cade in una foresta e nessuno assiste alla scena, la vecchina del piano di sotto verrà ugualmente a brontolare perché non si possono spostare i mobili a mezzanotte?
Bene, la filosofia della compressione mp3 (e di tutta la categoria di algoritmi di compressione detti a perdita di informazione) è questa: se una cosa non si sente, non esiste. Se quella frequenza non è percepibile dall'orecchio, allora la sua presenza è inutile: buttiamola via. Se devo registrare lo sparo di un cannone, è inutile che memorizzi anche il suono della mosca che volava lì vicino.
A grandi linee (molto grandi), un codificatore mp3 fa questo: prende in ingresso l'onda, la trasforma nell'elenco delle frequenze componenti, butta via le frequenze inutili, e produce un file decisamente più piccolo rispetto all'originale.
Anche se il file risultante è diverso dall'originale, l'orecchio umano non se ne accorge. O, almeno, non dovrebbe. Certamente non se ne accorgono i giovani d'oggi che ascoltano la musica in coppia, dividendosi le cuffie da buoni amici, un auricolare per uno (signora mia, dove andremo a finire? Nemmeno conoscono il concetto di stereofonia). Più difficile è affermare che nessuno se ne accorge: personalmente ho fatto una prova con un amico che possiede un impianto audio che costa di più della mia automobile, gli ho dato un cd contenente alcuni brani registrati sia in formato originale, sia passati attraverso la codifica/decodifica mp3, e lui ha saputo distinguerli.
Ecco, comunque, una prova oggettiva: ho preso il file contenente il la a 220 Hz suonato da una chitarra, file che avevo già usato nel post precedente, e l'ho compresso in formato mp3. Poi ho disegnato lo spettro. Eccoli qua, quello originale e quello dopo la compressione:
Si vede bene che nella parte sinistra sembrano uguali, ma poi nella parte destra cambiano notevolmente. Il file mp3, ad esempio, non contiene informazioni per le frequenze superiori ai 16000 Hz (tanto chi le sente?).
Credo che ci sia una morale, in questa faccenda dell'evoluzione del modo in cui viene memorizzata la musica. Da ragazzini, i miei amici ed io sapevamo cosa fosse una puntina di un giradischi, qualcuno sapeva anche distinguere tra magnete mobile e bobina mobile, andavamo nei negozi ad ammirare oggetti per noi proibiti, robe con nomi esotici come amplificatori valvolari in classe A, bracci tangenziali, diffusori elettrostatici, preamplificatori phono. E, quando ascoltavamo della musica, al massimo ogni venti minuti dovevamo alzarci per girare il disco.
Cercavamo la migliore fedeltà possibile e, adesso che abbiamo una tecnologia che ci permetterebbe di portarci una sala da concerto in casa, ci accontentiamo di poche frequenze trasmesse da un auricolare in un orecchio (bah, forse la morale è che sto invecchiando).
Se una farfalla batte le ali a Pechino, a New York nessuno la sente.
Etichette:
geekness,
I bei tempi andati,
matematica,
musica
sabato 15 dicembre 2012
Ma perché proprio le frequenze? — spettri
Quindi i suoni cominciano a diventare interessanti quando non sono composti da un'unica onda sinusoidale. E non devono nemmeno essere composti da più onde sinusoidali aventi la stessa frequenza, perché la somma di tante onde di quel tipo produce, alla fine, sempre un'unica sinusoide.
Dunque servono tante frequenze diverse.
Le onde sinusoidali sono gli atomi che compongono l'universo delle onde, gli elementi base a partire dai quali si può fare tutto.
Siamo anche in grado di smontare un'onda complessa, in modo da capire come sono fatti i suoi atomi: possiamo capire quali sono le frequenze che la compongono. Per farlo, si utilizza l'analisi di Fourier, che ci permette di visualizzare in un grafico tutte le componenti sinusoidali.
Per avere un'idea, prendiamo il la dell'ottava centrale del pianoforte, la nota usata come riferimento ufficiale per accordare tutti gli strumenti. Nella sua forma più semplice, è una sinusoide che oscilla 440 volte al secondo. Il grafico di cui parlavo prima (che si chiama spettro delle frequenze) è fatto così:
In un mondo perfetto si dovrebbe vedere un unico segmento verticale in corrispondenza della frequenza di 440 Hz, qui si vede un picco in corrispondenza di quella frequenza e un po' di rumore di fondo. La scala verticale è logaritmica,quindi il rumore è davvero molto in basso, ed è dovuto anche alle approssimazioni fatte dal computer per memorizzare un'onda attraverso i punti di cui è costituita.
Lo spettro di un'onda sinusoidale è quindi il più semplice possibile: una righina che corrisponde alla frequenza dell'onda.
Questo invece è lo spettro di un'onda composta da due sinusoidi aventi frequenze diverse (insomma: due note diverse):
Oltre alla nota precedente, il la a 440 Hz, qui ho aggiunto il la dell'ottava superiore, a 880 Hz: si vedono chiaramente due picchi, corrispondenti alle due diverse frequenze.
E adesso prendiamo una nota vera: ho registrato da un pianoforte elettrico il solito la (il fatto che la nota sia stata generata elettronicamente e non da una corda che vibra fa sì che non si possa proprio dire che la nota è vera, però ci assomiglia… insomma, non è così sgradevole come una sinusoide). Ecco la forma d'onda:
Si vede che è periodica, ma certamente non è una sinusoide (assomiglia di più a un'onda quadra, segno della sua natura elettronica). Ed ecco lo spettro:
Un sacco di frequenze: tutte, in misura più o meno evidente, contribuiscono alla creazione del suono finale. La nota è sempre la stessa, ma il timbro, cioè la sensazione che proviamo ascoltandola, ciò che ci fa riconoscere il suono tipico del pianoforte, è diverso. È questa ricchezza di frequenze superflue (ehm) che ci fa apprezzare i suoni (ed è per questo che dico ai miei studenti che la roba che ascoltano in discoteca non si può chiamare musica, ma non divaghiamo).
Infine, un'ultima onda vera, il la di una chitarra. Io pensavo che fosse anche quello a 440 Hz, ma non è così. Lo spettro mi ha rivelato (e l'internet ha confermato) che la corda la di una chitarra suona a 110 Hz, due ottave sotto rispetto a quello che pensavo. Siccome 110 Hz è molto vicino al limite sinistro del grafico, ho pensato che fosse meglio far vedere il la dell'ottava successiva, quello che si ottiene facendo suonare solo mezza corda.
Ecco l'onda:
e lo spettro:
E ora la domanda: abbiamo davvero bisogno di tutte quelle frequenze?
Dunque servono tante frequenze diverse.
Le onde sinusoidali sono gli atomi che compongono l'universo delle onde, gli elementi base a partire dai quali si può fare tutto.
Siamo anche in grado di smontare un'onda complessa, in modo da capire come sono fatti i suoi atomi: possiamo capire quali sono le frequenze che la compongono. Per farlo, si utilizza l'analisi di Fourier, che ci permette di visualizzare in un grafico tutte le componenti sinusoidali.
Per avere un'idea, prendiamo il la dell'ottava centrale del pianoforte, la nota usata come riferimento ufficiale per accordare tutti gli strumenti. Nella sua forma più semplice, è una sinusoide che oscilla 440 volte al secondo. Il grafico di cui parlavo prima (che si chiama spettro delle frequenze) è fatto così:
In un mondo perfetto si dovrebbe vedere un unico segmento verticale in corrispondenza della frequenza di 440 Hz, qui si vede un picco in corrispondenza di quella frequenza e un po' di rumore di fondo. La scala verticale è logaritmica,quindi il rumore è davvero molto in basso, ed è dovuto anche alle approssimazioni fatte dal computer per memorizzare un'onda attraverso i punti di cui è costituita.
Lo spettro di un'onda sinusoidale è quindi il più semplice possibile: una righina che corrisponde alla frequenza dell'onda.
Questo invece è lo spettro di un'onda composta da due sinusoidi aventi frequenze diverse (insomma: due note diverse):
Oltre alla nota precedente, il la a 440 Hz, qui ho aggiunto il la dell'ottava superiore, a 880 Hz: si vedono chiaramente due picchi, corrispondenti alle due diverse frequenze.
E adesso prendiamo una nota vera: ho registrato da un pianoforte elettrico il solito la (il fatto che la nota sia stata generata elettronicamente e non da una corda che vibra fa sì che non si possa proprio dire che la nota è vera, però ci assomiglia… insomma, non è così sgradevole come una sinusoide). Ecco la forma d'onda:
Si vede che è periodica, ma certamente non è una sinusoide (assomiglia di più a un'onda quadra, segno della sua natura elettronica). Ed ecco lo spettro:
Un sacco di frequenze: tutte, in misura più o meno evidente, contribuiscono alla creazione del suono finale. La nota è sempre la stessa, ma il timbro, cioè la sensazione che proviamo ascoltandola, ciò che ci fa riconoscere il suono tipico del pianoforte, è diverso. È questa ricchezza di frequenze superflue (ehm) che ci fa apprezzare i suoni (ed è per questo che dico ai miei studenti che la roba che ascoltano in discoteca non si può chiamare musica, ma non divaghiamo).
Infine, un'ultima onda vera, il la di una chitarra. Io pensavo che fosse anche quello a 440 Hz, ma non è così. Lo spettro mi ha rivelato (e l'internet ha confermato) che la corda la di una chitarra suona a 110 Hz, due ottave sotto rispetto a quello che pensavo. Siccome 110 Hz è molto vicino al limite sinistro del grafico, ho pensato che fosse meglio far vedere il la dell'ottava successiva, quello che si ottiene facendo suonare solo mezza corda.
Ecco l'onda:
e lo spettro:
E ora la domanda: abbiamo davvero bisogno di tutte quelle frequenze?
martedì 11 dicembre 2012
Ma perché proprio le frequenze? — somme di sinusoidi
E allora, come si generano suoni diversi? E note diverse?
Facciamo un passo alla volta, vediamo che succede sommando due sinusoidi. Si possono fare i passaggi algebrici (noiosi) per scoprire il risultato, ma è molto più facile vedere un disegno. Abbiamo visto che un'onda può essere generata a partire da un punto che ruota su una circonferenza: generalizziamo un po'. Invece di pensare a un punto rotante, pensiamo a un vettore che ruota (semplicemente colleghiamo con una freccia il centro della circonferenza col punto che gira).
Ora, che succede se modifichiamo la lunghezza del vettore? Stiamo modificando l'ampiezza dell'onda. Il regolatore di volume è il regolatore della lunghezza del vettore.
E se di vettori ne abbiamo due? Ecco qua quello che succede, giocateci un po': sono disponibili i comandi per regolare le lunghezze dei due vettori e l'angolo tra di loro (cioè la famosa fase). Il risultato è evidente, la somma di due vettori è facile da disegnare:
La somma di due sinusoidi aventi la stessa frequenza è ancora una sinusoide avente la stessa frequenza (magari il volume finale sarà diverso, e così anche la fase).
Quindi, se sommo due note uguali ottengo sempre la stessa nota.
E, dunque, se voglio note diverse devo avere frequenze diverse. Con una sola frequenza non posso fare musica.
Ecco qua un disegno che rappresenta, in grigio, due sinusoidi aventi frequenze diverse, e in blu la loro somma:
Ora l'onda finale non ha più una forma semplice, e il suono che essa produce comincia a diventare un po' più interessante.
Se riesco a convincere i miei figli a registrare un paio di note prese da strumenti veri, dovrei riuscire a scrivere un paio di altri post sull'argomento.
Facciamo un passo alla volta, vediamo che succede sommando due sinusoidi. Si possono fare i passaggi algebrici (noiosi) per scoprire il risultato, ma è molto più facile vedere un disegno. Abbiamo visto che un'onda può essere generata a partire da un punto che ruota su una circonferenza: generalizziamo un po'. Invece di pensare a un punto rotante, pensiamo a un vettore che ruota (semplicemente colleghiamo con una freccia il centro della circonferenza col punto che gira).
Ora, che succede se modifichiamo la lunghezza del vettore? Stiamo modificando l'ampiezza dell'onda. Il regolatore di volume è il regolatore della lunghezza del vettore.
E se di vettori ne abbiamo due? Ecco qua quello che succede, giocateci un po': sono disponibili i comandi per regolare le lunghezze dei due vettori e l'angolo tra di loro (cioè la famosa fase). Il risultato è evidente, la somma di due vettori è facile da disegnare:
(esce un po' dal margine, ma se lo rimpicciolisco ancora non si vede più niente) |
La somma di due sinusoidi aventi la stessa frequenza è ancora una sinusoide avente la stessa frequenza (magari il volume finale sarà diverso, e così anche la fase).
Quindi, se sommo due note uguali ottengo sempre la stessa nota.
E, dunque, se voglio note diverse devo avere frequenze diverse. Con una sola frequenza non posso fare musica.
Ecco qua un disegno che rappresenta, in grigio, due sinusoidi aventi frequenze diverse, e in blu la loro somma:
Ora l'onda finale non ha più una forma semplice, e il suono che essa produce comincia a diventare un po' più interessante.
Se riesco a convincere i miei figli a registrare un paio di note prese da strumenti veri, dovrei riuscire a scrivere un paio di altri post sull'argomento.
lunedì 10 dicembre 2012
Ma perché proprio le frequenze? — sinusoidi
«Chi di voi suona la chitarra?».
«Io, prof!».
«Bene, allora: se prendi una corda che suona una certa nota, cosa succede quando metti un dito al centro e fai suonare solo mezza corda? Che nota si ottiene?».
«Quella di un'ottava sopra».
«Perfetto. E se metti un dito in modo da fare suonare solo un terzo di corda?».
«Boh?».
«Dovresti ottenere la frequenza tripla, no?».
«Forse sì».
«E che nota è?».
«Ah, non so, dipende da qual era la nota iniziale».
Le mie conoscenze musicali si fermano qui, e per sapere il motivo per cui la serie armonica si chiama armonica sono andato dagli amichetti di friendfeed. Uno dei quali aveva già scritto pagine e pagine di teoria musicale e, come se non bastasse, ha anche aggiunto qualche informazione in più sul Post (perché proprio sette note?).
Bene, ora facciamo un passo indietro: perché ci interessano proprio le frequenze dei suoni?
L'onda sonora più semplice, almeno da un certo punto di vista, è l'onda sinusoidale. È semplice perché è facile da descrivere. Prendiamo un punto su una circonferenza e facciamolo ruotare a velocità costante: la sua ombra descrive un moto oscillante che si chiama moto armonico e che, se disegnato su un piano cartesiano mettendo il tempo sull'asse delle ascisse e la posizione dell'ombra su quello delle ordinate, ha come grafico una sinusoide.
Se prendiamo una molla, attacchiamo in fondo un peso, al peso attacchiamo un pennino in grado di scrivere su un cilindro di carta, e facciamo ruotare il cilindro mentre diamo un colpetto al peso in modo da farlo oscillare, possiamo osservare sul cilindro la traccia della sinusoide.
La sinusoide è quindi un'onda semplice da descrivere. Chi ha studiato goniometria sa che esistono tante funzioni goniometriche, ma in realtà ne basterebbe solo una: con quella si possono descrivere tutte le altre.
Una sinusoide è fatta così:
Cosa c'entra tutto questo con i suoni della corda di chitarra? Bé, i suoni sono onde che si propagano attraverso l'aria, e fanno vibrare i nostri timpani. A seconda di come vibrano, noi percepiamo sensazioni differenti. L'onda sinusoidale è il suono più semplice (e anche il più noioso da ascoltare…).
Bastano tre parametri per descriverla: frequenza, ampiezza, fase.
La frequenza ci dice quante oscillazioni vengono fatte in un secondo: l'orecchio umano sano, giovane e in perfette condizioni dovrebbe percepire frequenze nella gamma che va dalle 20 alle 20000 oscillazioni al secondo (che si chiamano Hertz). Ecco un disegno che mostra due onde aventi frequenze diverse (ma stessa ampiezza e stessa fase).
L'ampiezza ci dice quanto alta è un'onda (in pratica, qual è il volume: quando giriamo la manopola dello stereo per ascoltare a volume più alto, stiamo modificando l'ampiezza). Ecco un disegno di due onde aventi ampiezze diverse (ma stessa frequenza e stessa fase).
Infine, la fase ci dice qual è il punto di partenza delle onde. Questo parametro è un po' più difficile da capire, perché in effetti il nostro orecchio non è in grado di percepirlo. Ritornando all'esperimento del peso attaccato a una molla, immaginiamo di averne due: li tiriamo entrambi un pochino verso il basso, e poi li lasciamo andare, ma non contemporaneamente. Prima uno, e dopo un po' l'altro: ecco che le onde che vengono disegnate non sono sovrapposte, ma un po' spostate una rispetto all'altra. Si dice che sono sfasate:
Riassumendo: la frequenza ci dice la nota (se varia, sentiamo una nota più grave o più acuta (le note gravi corrispondono a frequenze più basse, quelle acute a frequenze più alte)), l'ampiezza ci dice il volume (maggiore è l'ampiezza, maggiore è il volume), la fase è, di solito, inascoltabile. In realtà noi abbiamo due orecchie, e se ascoltiamo da una parte una certa onda, dall'altra la stessa onda sfasata, forse ci accorgiamo del fatto che qualcosa non va. Ma bisogna essere allenati.
Ora, nessuno strumento musicale produce un'onda sinusoidale. Forse un buon diapason ne produce una buona approssimazione, e naturalmente gli strumenti elettronici sono in grado di emettere quel tipo di suono; il fatto è che non è molto interessante dal punto di vista musicale, perché è, come dire, noioso. È il tono di libero emesso dalla cornetta del telefono, per esempio.
E allora, a cosa servono le onde sinusoidali in musica? Bé, servono a generare i suoni di tutti gli strumenti.
«Io, prof!».
«Bene, allora: se prendi una corda che suona una certa nota, cosa succede quando metti un dito al centro e fai suonare solo mezza corda? Che nota si ottiene?».
«Quella di un'ottava sopra».
«Perfetto. E se metti un dito in modo da fare suonare solo un terzo di corda?».
«Boh?».
«Dovresti ottenere la frequenza tripla, no?».
«Forse sì».
«E che nota è?».
«Ah, non so, dipende da qual era la nota iniziale».
Le mie conoscenze musicali si fermano qui, e per sapere il motivo per cui la serie armonica si chiama armonica sono andato dagli amichetti di friendfeed. Uno dei quali aveva già scritto pagine e pagine di teoria musicale e, come se non bastasse, ha anche aggiunto qualche informazione in più sul Post (perché proprio sette note?).
Bene, ora facciamo un passo indietro: perché ci interessano proprio le frequenze dei suoni?
L'onda sonora più semplice, almeno da un certo punto di vista, è l'onda sinusoidale. È semplice perché è facile da descrivere. Prendiamo un punto su una circonferenza e facciamolo ruotare a velocità costante: la sua ombra descrive un moto oscillante che si chiama moto armonico e che, se disegnato su un piano cartesiano mettendo il tempo sull'asse delle ascisse e la posizione dell'ombra su quello delle ordinate, ha come grafico una sinusoide.
Se prendiamo una molla, attacchiamo in fondo un peso, al peso attacchiamo un pennino in grado di scrivere su un cilindro di carta, e facciamo ruotare il cilindro mentre diamo un colpetto al peso in modo da farlo oscillare, possiamo osservare sul cilindro la traccia della sinusoide.
La sinusoide è quindi un'onda semplice da descrivere. Chi ha studiato goniometria sa che esistono tante funzioni goniometriche, ma in realtà ne basterebbe solo una: con quella si possono descrivere tutte le altre.
Una sinusoide è fatta così:
Cosa c'entra tutto questo con i suoni della corda di chitarra? Bé, i suoni sono onde che si propagano attraverso l'aria, e fanno vibrare i nostri timpani. A seconda di come vibrano, noi percepiamo sensazioni differenti. L'onda sinusoidale è il suono più semplice (e anche il più noioso da ascoltare…).
Bastano tre parametri per descriverla: frequenza, ampiezza, fase.
La frequenza ci dice quante oscillazioni vengono fatte in un secondo: l'orecchio umano sano, giovane e in perfette condizioni dovrebbe percepire frequenze nella gamma che va dalle 20 alle 20000 oscillazioni al secondo (che si chiamano Hertz). Ecco un disegno che mostra due onde aventi frequenze diverse (ma stessa ampiezza e stessa fase).
L'ampiezza ci dice quanto alta è un'onda (in pratica, qual è il volume: quando giriamo la manopola dello stereo per ascoltare a volume più alto, stiamo modificando l'ampiezza). Ecco un disegno di due onde aventi ampiezze diverse (ma stessa frequenza e stessa fase).
Infine, la fase ci dice qual è il punto di partenza delle onde. Questo parametro è un po' più difficile da capire, perché in effetti il nostro orecchio non è in grado di percepirlo. Ritornando all'esperimento del peso attaccato a una molla, immaginiamo di averne due: li tiriamo entrambi un pochino verso il basso, e poi li lasciamo andare, ma non contemporaneamente. Prima uno, e dopo un po' l'altro: ecco che le onde che vengono disegnate non sono sovrapposte, ma un po' spostate una rispetto all'altra. Si dice che sono sfasate:
Riassumendo: la frequenza ci dice la nota (se varia, sentiamo una nota più grave o più acuta (le note gravi corrispondono a frequenze più basse, quelle acute a frequenze più alte)), l'ampiezza ci dice il volume (maggiore è l'ampiezza, maggiore è il volume), la fase è, di solito, inascoltabile. In realtà noi abbiamo due orecchie, e se ascoltiamo da una parte una certa onda, dall'altra la stessa onda sfasata, forse ci accorgiamo del fatto che qualcosa non va. Ma bisogna essere allenati.
Ora, nessuno strumento musicale produce un'onda sinusoidale. Forse un buon diapason ne produce una buona approssimazione, e naturalmente gli strumenti elettronici sono in grado di emettere quel tipo di suono; il fatto è che non è molto interessante dal punto di vista musicale, perché è, come dire, noioso. È il tono di libero emesso dalla cornetta del telefono, per esempio.
E allora, a cosa servono le onde sinusoidali in musica? Bé, servono a generare i suoni di tutti gli strumenti.
zar, 9 Dicembre 2012, Creato con GeoGebra |
sabato 8 dicembre 2012
Nuove frontiere dell'animazione digitale
Questa è una prova: ho costruito una animazione con GeoGebra, l'ho esportata in html e l'ho copiata nell'editor di blogger. L'unico modo per sapere se funziona tutto per bene è pubblicarla.
Quindi, ecco due parole su quello che si dovrebbe vedere: un fotone arriva dal cielo (il pallino rosso). Un telescopio si trova sulla terra e vuole vedere (ehm) il fotone: dato che la terra si muove, il telescopio (che viene trascinato dal movimento della terra) deve essere un po' inclinato. Si tratta del fenomeno dell'aberrazione della luce.
Probabilmente dovrete dire al vostro browser di attivare java su questa pagina.
Quindi, ecco due parole su quello che si dovrebbe vedere: un fotone arriva dal cielo (il pallino rosso). Un telescopio si trova sulla terra e vuole vedere (ehm) il fotone: dato che la terra si muove, il telescopio (che viene trascinato dal movimento della terra) deve essere un po' inclinato. Si tratta del fenomeno dell'aberrazione della luce.
Probabilmente dovrete dire al vostro browser di attivare java su questa pagina.
Aberrazionezar, 8 Dicembre 2012, Creato con GeoGebra |
sabato 1 dicembre 2012
Enigma
Ci sono tre storie che convergono qui.
La prima è quella che racconta di me bambino, accompagnato da mio papà al cinema a vedere Biancaneve, nella versione in cartoni animati di Walt Disney. Mi racconta il babbo che io passai metà del tempo con gli occhi chiusi, terrorizzato dalla strega cattiva. I miei ricordi non sono molto precisi (avrò avuto sei anni, più o meno), tranne che in un punto: la scena in cui QUELLA MALEDETTA STREGA ORRIPILANTE SCENDE NELLE PRIGIONI DEL CASTELLO, ehm, io l'ho vissuta con gli occhi chiusi da entrambe le mani e al di sotto della linea dei sedili davanti a me, per stare nel sicuro. Ancora oggi, mi sento inquieto al pensiero di quella vecchiaccia col naso bitorzoluto.
La seconda storia è quella che vede ancora me stesso, molto più grande, acquistare e leggere un libro (di cui magari parlerò in un altro momento) su spionaggio e codici cifrati, presentati sia dal punto di vista tecnico che da quello storico. È stato grazie a quella lettura che ho imparato l'importanza che hanno avuto i matematici durante la guerra.
La terza storia è quella raccontata in Enigma, la strana vita di Alan Turing (di Tuono Pettinato e Francesca Riccioni, Rizzoli Lizard, 13.60€ in formato fisico e 11.99€ in formato Kindle)
È una storia a fumetti che racconta di Alan Turing, della sua vita, delle sue scoperte, del suo genio e della sua triste fine. La biografia è molto dettagliata, ma non è un testo matematico (non temete): vengono citate alcune pietre miliari della storia della matematica, come il paradosso di Russell, il programma di Hilbert, il teorema di Gödel, la macchina di Turing e l'omonimo test. Viene poi descritta l'attività di Bletchley Park, e vengono citate le macchine Enigma e Colossus.
Lo scopo di questo libro non è quello di dimostrare teoremi o di parlare di matematica, no. Lo scopo è quello di raccontare una storia, e di invogliare il lettore ad approfondire.
E direi che ci sia riuscito benissimo, se non fosse per quella brutta ossessione di Turing per la storia di Biancaneve. Se, come lui e come il bimbetto della prima storia, siete rimasti ossessionati da Grimilde, non andate a pagina 52 se siete soli in casa.
La prima è quella che racconta di me bambino, accompagnato da mio papà al cinema a vedere Biancaneve, nella versione in cartoni animati di Walt Disney. Mi racconta il babbo che io passai metà del tempo con gli occhi chiusi, terrorizzato dalla strega cattiva. I miei ricordi non sono molto precisi (avrò avuto sei anni, più o meno), tranne che in un punto: la scena in cui QUELLA MALEDETTA STREGA ORRIPILANTE SCENDE NELLE PRIGIONI DEL CASTELLO, ehm, io l'ho vissuta con gli occhi chiusi da entrambe le mani e al di sotto della linea dei sedili davanti a me, per stare nel sicuro. Ancora oggi, mi sento inquieto al pensiero di quella vecchiaccia col naso bitorzoluto.
La seconda storia è quella che vede ancora me stesso, molto più grande, acquistare e leggere un libro (di cui magari parlerò in un altro momento) su spionaggio e codici cifrati, presentati sia dal punto di vista tecnico che da quello storico. È stato grazie a quella lettura che ho imparato l'importanza che hanno avuto i matematici durante la guerra.
La terza storia è quella raccontata in Enigma, la strana vita di Alan Turing (di Tuono Pettinato e Francesca Riccioni, Rizzoli Lizard, 13.60€ in formato fisico e 11.99€ in formato Kindle)
È una storia a fumetti che racconta di Alan Turing, della sua vita, delle sue scoperte, del suo genio e della sua triste fine. La biografia è molto dettagliata, ma non è un testo matematico (non temete): vengono citate alcune pietre miliari della storia della matematica, come il paradosso di Russell, il programma di Hilbert, il teorema di Gödel, la macchina di Turing e l'omonimo test. Viene poi descritta l'attività di Bletchley Park, e vengono citate le macchine Enigma e Colossus.
Lo scopo di questo libro non è quello di dimostrare teoremi o di parlare di matematica, no. Lo scopo è quello di raccontare una storia, e di invogliare il lettore ad approfondire.
E direi che ci sia riuscito benissimo, se non fosse per quella brutta ossessione di Turing per la storia di Biancaneve. Se, come lui e come il bimbetto della prima storia, siete rimasti ossessionati da Grimilde, non andate a pagina 52 se siete soli in casa.
Iscriviti a:
Post (Atom)