domenica 10 dicembre 2017

Ma tu guarda questa radice di 5

“Ma quindi, questi numeri trascendenti possono essere approssimati con frazioni meglio di quanto si possa fare con i numeri algebrici?”.

“Eh, sì, se definiamo in maniera un po' rigorosa quel meglio”.

“Già, mi pareva che tutti i numeri irrazionali, sia quelli algebrici che quelli trascendenti, potessero essere approssimati bene quanto si vuole con le frazioni, no?”.

“Ed è così, infatti. Bisogna solo chiarire come sono fatte le frazioni. Se ricordi, ti ho mostrato un paio di tabelle in cui si riusciva a intuire che la radice quadrata di due poteva essere approssimata bene con frazioni sempre più precise, a patto di aumentare con regolarità il numero di cifre del numeratore e del denominatore”.

“Ricordo, e ricordo anche che, invece, per le frazioni che approssimano pi greco non c'è la stessa regolarità”.

“Proprio così. Ora cerchiamo di capire in cosa consiste questo diverso modo di comportarsi delle frazioni”.

“Ok, cominciamo”.

“Partiamo dal semplice: ogni numero irrazionale può essere approssimato da un numero intero con un errore di 1/2”.

“Ehh?”.

“Prendi pi greco: se lo approssimi con il numero 3 che errore commetti?”.

“Un errore pari a 0.141592654eccetera”.

“Minore di 1/2, cioè 0.5”.

“Ah, certo”.

“Stessa cosa per la radice di 2, no?”.

“Se la approssimo con 1 commetto un errore pari a 0.414213”.

“Quindi minore di 1/2”.

“Va bene, ho capito, prendo l'intero più vicino ed è fatta”.

“Esattamente, l'errore può essere per eccesso o per difetto, ma è comunque minore di 1/2”.

“Bene, ma un numero intero non è che sia questa gran approssimazione, eh”.

“Infatti, facciamo di meglio. Se vogliamo approssimare un numero irrazionale con una frazione del tipo m/n, allora possiamo farlo sempre con un errore minore di 1/(2n)”.

“Continua a essere nebuloso: credo di aver capito cosa vuoi dire, ma non saprei come dimostrarlo”.

“Riprendiamo l'esempio di prima, con la radice di 2. L'abbiamo approssimata con 1 che, volendo, è la frazione 1/1”.

“Vabbè. Mi pare di capire però che come denominatore si possa scegliere il numero che si vuole”.

“Esatto, scegline uno”.

“Boh, facciamo 42”.

“Bene, allora calcola il valore di 42 moltiplicato per la radice di 2”.

“Uhm, la calcolatrice dice 59.39697”.

“Quindi 59 è una approssimazione di quel numero a meno di un errore di 0.5, cioè 1/2”.

“Certo, l'abbiamo detto prima”.

“Perfetto: ora dividi tutto per 42 e ottieni l'approssimazione che volevi”.

“Come come?”.

“Se 59 approssima 42 moltiplicato per radice di 2 con un errore di 1/2, allora 59/42 approssima radice di 2 con un errore pari a 1/(2×42)”.

“Ah, ma era così semplice?”.

“Già. Giusto per la cronaca, 59/42 è uguale a 1.40476”.

“Funziona! E mi pare anche di aver capito la dimostrazione del teorema: se voglio avere una frazione che approssima con un errore minore di 1/(2n), allora mi basta moltiplicare il numero da approssimare per n e fare come abbiamo fatto adesso”.

“Esatto. Ora proviamo a fare di meglio”.

“Come?”.

“Possiamo approssimare con un errore minore di 1/(3n)? O 1/(4n)? 1/(5n)? Quanto possiamo diminuire l'errore?”.

“Ah, boh”.

“Qui le cose cominciano a complicarsi un po'”.

“Capirai”.

“Possiamo scegliere il coefficiente di n al denominatore grande quanto vogliamo, e cioè possiamo approssimare con un errore minore di 1/(3n), 1/(4n), 1/(1000n), ma non per tutti gli n che vogliamo. Si dimostra che almeno un n si trova, ma non tutti vanno bene, purché k sia maggiore o uguale di n”.

“Ah”.

“Ti faccio capire la dimostrazione come ho fatto prima, con un esempio. Prendiamo la radice di 3, e scegliamo = 8. Vogliamo far vedere che riusciamo a trovare un n tale che la frazione m/n è un'approssimazione di radice di 3 con un errore minore di 1/(8n)”.

“Ok”.

“Ti scrivo i numeri del tipo i per radice di 3, con i che va da 1 a 8:”.

1×√(3) =  1 + 0.732050807569
2×(3) =  3 + 0.464101615138
3×(3) =  5 + 0.196152422707
4×(3) =  6 + 0.928203230276
5×(3) =  8 + 0.660254037844
6×(3) = 10 + 0.392304845413
7×(3) = 12 + 0.124355652982
8×(3) = 13 + 0.856406460551


“Ok, e adesso?”.

“Adesso possiamo calcolare la parte decimale dei numeri elencati sopra in questo modo”.

1×(3)   1 = 0.732050807569
2×(3)   3 = 0.464101615138
3×(3)   5 = 0.196152422707
4×(3)   6 = 0.928203230276
5×(3)   8 = 0.660254037844
6×(3)  10 = 0.392304845413
7×(3)  12 = 0.124355652982
8×(3)  13 = 0.856406460551

“Ok, e, a costo di ripetermi, adesso?”.

“Ora immagina di prendere l'intervallo che va da 0 a 1 e di dividerlo in 8 parti. Una prima parte che va da 0 a 1/8, una seconda parte che va da 1/8 a 2/8, e così via, fino all'ultima parte che va da 7/8 a 8/8, cioè 1”.

“Va bene”.

“Ora inseriamo le otto parti decimali che abbiamo calcolato poco fa negli otto intervalli”.

“Ok, questo penso di saperlo fare: indico con Ik l'intervallo, con k che va da 1 a 8:”.

0.732050807569 I6
0.464101615138 I4
0.196152422707 I2
0.928203230276 I8
0.660254037844 I6
0.392304845413 I4
0.124355652982 I1
0.856406460551 I7

“Perfetto. Ora cerca quale di questi numeri si trova nel primo intervallo”.

“È 0.124355652982”.

“Che corrisponde a 7×√(3) − 12”.

“Già”.

“Quindi potremmo dire che 7×√(3) − 12 è approssimabile a 0 con un errore minore di 1/8”.

“Giusto, come abbiamo fatto prima”.

“E quindi, dividendo tutto per 7, √(3) − 12/7 è approssimabile a 0 con un errore minore di 1/(7×8)”.

“Ah, e quindi abbiamo trovato l'approssimazione che volevamo: √(3) è approssimabile dalla frazione 12/7 con un errore minore di 1/(7×8). Ma questo ha funzionato solo perché abbiamo trovato un numero nell'intervallo I1. E se non ci fosse nemmeno un numero in quell'intervallo?”.

“Ottima domanda. Se non cadesse nemmeno un numero nel primo intervallo, allora bisognerà che in uno dei restanti intervalli cadano almeno due numeri”.

“È un ragionamento che ho già sentito fare. Si chiama principio dei cassetti, vero?”.

“Ottimo! È proprio così: se hai 8 magliette da mettere in 7 cassetti, allora certamente almeno un cassetto dovrà contenere più di una maglietta”.

“Eh, sì, giusto. E adesso?”.

“Adesso per poter andare avanti non abbiamo nemmeno bisogno di fare un altro esempio: hai notato che anche nel nostro caso ci sono alcuni cassetti occupati due volte, vero?”.

“Sì: il quarto e il sesto”.

“Bene: considera i due occupanti nel cassetto 6, per esempio”.

“Ok. Che ci faccio?”.

“A che distanza sono?”.

“Devo fare il calcolo?”.

“No, non è necessario: stanno entrambi nello stesso intervallo, quindi quale sarà la loro distanza massima?”.

“Bé, al massimo saranno a distanza 1/8 uno dall'altro”.

“Esattamente. Uno dei due numeri è 5×√(3) − 8, e l'altro è invece √(3) − 1. Se calcoli la loro differenza…”.

“Ottengo 4×√(3) − 7”.

“Questo numero è approssimabile a 0 con un errore di 1/8, quindi dividendo tutto per 4…”.

“…ottengo un'approssimazione di √(3), cioè 7/4, con un errore di 1/(4×8)”.

“Ecco fatto, il teorema è dimostrato. Il caso generale è analogo a quello che abbiamo fatto adesso: se trovi una parte decimale che sta nel primo intervallo, sei a posto. Altrimenti vuol dire che uno degli altri intervalli conterrà almeno due parti decimali diverse”.

“E facendo la differenza, come abbiamo fatto adesso, arriviamo subito alla tesi del teorema”.

“Perfetto”.

“Quindi abbiamo finito?”.

“Certo che no. Possiamo migliorare ulteriormente la precisione delle nostre approssimazioni?”.

“E come sarebbe possibile? Abbiamo già preso in considerazione tutti i possibili multipli di n in quel denominatore!”.

“Chiediamoci allora se possiamo avere errori minori di 1/n2, o 1/n3, e così via”.

“Ah”.

“Ma non entro troppo nel tecnico: la risposta è che l'approssimazione con errore minore di 1/n2 si può sempre fare, ma non si può fare tanto di meglio”.

“Mi pare difficile da dimostrare, soprattutto per la parte di impossibilità”.

“Non è difficile, ma è un po' noioso. Bisogna annegare in un mare di disuguaglianze e stime, con poca soddisfazione”.

“Ah”.

“Quindi direi di fermarci qua, anche perché dobbiamo ancora vedere cosa rende i numeri algebrici diversi dai trascendenti”.

“Va bene”.

“Ti riassumo, quindi, quanto abbiamo detto finora, aggiungendo anche i teoremi che non abbiamo dimostrato:”.


  • Teorema 1: un qualsiasi numero irrazionale è approssimabile, con un errore minore di 1/2, da un unico numero intero.
  • Teorema 2: se x è un numero irrazionale e n un intero positivo, allora esiste una frazione m/n che approssima x con un errore minore di 1/(2n).
  • Teorema 3: se x è un numero irrazionale e k un intero positivo, allora esiste una frazione m/n il cui denominatore non supera k che approssima x con un errore minore di 1/(nk)
  • Teorema 4: se x è un numero irrazionale, esistono infinite frazioni del tipo m/n, ridotte ai minimi termini, che approssimano x con un errore minore di 1/n2.


“Benissimo”.

“Con qualche trucchetto le approssimazioni dei teoremi 3 e 4 possono essere migliorate un pochino, ma non entriamo troppo nel dettaglio. Una cosa interessante è invece questa:”.

  • Teorema 5: se x è un numero irrazionale, esistono infinite frazioni del tipo m/n, ridotte ai minimi termini, che approssimano x con un errore minore di 1/(√(5)×n2), e la radice di 5 è la più grande costante utilizzabile in questo denominatore.


“In che senso la più grande costante utilizzabile?”.

“Nel senso che se l'aumenti un po' il teorema diventa falso: non trovi più infinite frazioni con quella proprietà”.

“Ah. Ma questa radice di cinque compare nei posti più impensati”.

“Già”.

sabato 4 novembre 2017

Trascendenza

Qual è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

“Uh, la Divina Commedia”.

“Già. La parte finale dell'ultimo canto del Paradiso, la fine del viaggio”.

“La visione di Dio, vero?”.

“Esatto. Dante arriva davanti a Dio, e cerca di comprendere il mistero della Trinità: gli appaiono tre cerchi, di uguale dimensione ma di colore diverso. Cerca di spiegare quello che ha visto, ma ammette il fatto che le sue parole non sono sufficienti per descrivere tutto. All'interno del secondo cerchio, poi, Dante scorge un'immagine umana”.

“Gesù”.

“Sì. Ed ecco che si affaccia alla sua mente un altro mistero: la coesistenza in un'unica persona della natura umana e di quella divina”.

“Questo è ancora meno comprensibile del precedente”.

“E infatti Dante fa un paragone molto particolare per descrivere l'incapacità della sua mente di comprendere questo mistero”.

“Mi pare che tu ne avessi già parlato”.

“Ah, bene, vedo che hai buona memoria! Sì, il paragone è quello dello studioso di geometria, che cerca di risolvere un problema molto difficile, quello della quadratura del cerchio”.

“A me questa cosa della quadratura del cerchio ha sempre fatto ridere. Mi immagino uno che a suon di martellate cerca di dare forma quadrata a una ruota”.

“Santo cielo. No, non si riferisce esattamente a questo il problema”.

“Lo sospettavo”.

“Ricorderai che i greci avevano delle regole molto precise per lo sviluppo della loro geometria”.

“Ricordo che volevano usare soltanto riga e compasso”.

“Esatto. Riga senza segni, compasso che si richiude dopo aver tracciato un cerchio. Insomma, una geometria senza numeri e poche regole di base”.

“I greci non erano normali”.

Ti ripeti, sai?”.

“Eh, pazienza. Ma quindi, possiamo usare un compasso ma non riusciamo a quadrare il cerchio. Cosa vuol puoi dire, quadrare il cerchio?”.

“Vuol dire costruire, utilizzando soltanto riga e compasso, un quadrato avente la stessa superficie di un cerchio dato”.

“Fammi capire, bisogna che provi con dei numeri”.

“L'area di un cerchio di raggio r è uguale a πr2”.

“Ok”.

“Quindi devi costruire un quadrato di lato r√π”.

“Bene”.

“Ora, r è solo un fattore di scala, prendila come unità di misura. Il problema è costruire, con riga e compasso, un segmento lungo √π”.

“Sì, giusto”.

“Se riesci a disegnare un segmento, riesci a disegnare anche la sua radice quadrata, e viceversa”.

“Ah sì?”.

“Sì, grazie ad esempio al secondo teorema di Euclide. Dato un triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull'altezza relativa all'ipotenusa è equivalente al rettangolo che ha per dimensioni le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa”.

“Eh?”.

“Guarda questa figura:”.



“Ok”.

“Il quadrato di lato CD ha la stessa area del rettangolo di lati AC e CB”.

“Cioè x”.

“Esatto. E quindi se un quadrato ha area x, il suo lato sarà…”.

“Radice di x! Bene, ho capito”.

“Quindi costruire √π o costruire π è la stessa cosa: se sai costruire uno dei due sai costruire anche l'altro”.

“Va bene, quindi il problema della quadratura del cerchio si traduce nella costruzione di un segmento lungo pi greco”.

“Proprio così. Ora, con riga e compasso non si riesce a costruire proprio tutto quello che si vuole”.

“Ricordo”.

“Esiste una categoria di numeri costruibili”.

“Certo, esistono categorie per tutto”.

“Quella dei numeri costruibili contiene solo numeri che si possono ottenere a partire dai numeri razionali facendo un numero finito di somme, sottrazioni, moltiplicazioni, divisioni e radici quadrate”.

“Non si può fare di meglio, vero?”.

“No, il compasso ti permette di estrarre soltanto radici quadrate. Naturalmente puoi fare radici di radici, ottenere radici quarte, radici ottave, e così via. Non potrai mai ottenere radici cubiche, ad esempio”.

“E pi greco?”.

“Pi greco è stato un grossissimo problema”.

“Addirittura”.

“Eh sì. Abbiamo già raccontato un po' della sua storia: all'inizio non si sapeva nemmeno se fosse un numero razionale oppure no”.

“Ci aveva lavorato anche Archimede, vero?”.

“Giusto, lui ha studiato poligoni fino a 96 lati”.

Roba da matti”.

“C'è di peggio, Ludolph van Ceulen è arrivato a poligoni con 230 lati”.

“Santo cielo”.

“Ma nessuno, fino al 1761, è riuscito a scoprire se pi greco fosse razionale o irrazionale”.

“E che è successo nel 1761?”.

“Lambert, utilizzando concetti di analisi, arriva a dimostrare l'irrazionalità”.

“L'analisi?”.

“Sì, un teorema di teoria dei numeri dimostrato con l'analisi. Abbastanza inaudito: in teoria dei numeri si dimostrano cose molto complicate, eppure senza l'analisi non si riesce a studiare pi greco”.

“Che roba”.

“Eppure nemmeno questa dimostrazione era sufficiente per dimostrare l'impossibilità di quadrare il cerchio”.

“Ah, già, con riga e compasso si possono costruire numeri irrazionali, dato che si possono fare tutte le radici quadrate che si vuole”.

“Esatto. Bisogna dimostrare qualcosa di più”.

“E qualcuno c'è riuscito”.

“Sì, nel 1882 c'è riuscito Lindemann, dimostrando che pi greco è addirittura trascendente”.

“Trascendente?”.

“Sì. Significa che non può essere soluzione di nessuna equazione polinomiale a coefficienti interi”.

“Non capisco”.

“Allora, partiamo dall'inizio. I numeri naturali sono soluzioni di equazioni polinomiali di primo grado”.

“Continuo a non capire”.

“Per esempio, il numero 42”.

“E di quale equazione è soluzione?”.

x − 42 = 0”.

“Ah, ma certo”.

“Ma anche tutte le frazioni sono soluzioni di equazioni polinomiali di primo grado”.

“Mh, per esempio?”.

“Per esempio, 2/3 è soluzione dell'equazione 3x − 2 = 0”.

“Già, era ovvio anche questo”.

“Le radici quadrate sono invece soluzioni di equazioni di secondo grado. Per esempio, la radice di 2 è una delle soluzioni di x2 − 2 = 0”.

“Ok, sto capendo. Più aumenti il grado, più complicate sono le soluzioni”.

“Esatto. Esistono però alcuni numeri irrazionali che non possono essere soluzioni di nessuna equazione polinomiale, qualunque grado essa abbia”.

“Ma pensa. E pi greco è uno di questi numeri? Ce ne saranno pochi, suppongo”.

“Supponi male, in realtà i numeri irrazionali sono quasi tutti trascendenti”.

“Eh, ma com'è possibile?”.

“Beh, forse ricordi la differenza tra insieme infinito numerabile e insieme infinito non numerabile”.

Qualcosa ricordo”.

“In sostanza, l'infinito numerabile è quello dei numeri naturali. Puoi contare, metti un numero dopo l'altro, e via così. Anche i numeri interi e i numeri razionali sono un'infinità numerabile: si possono mettere in fila e li si possono contare, mettendoli in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali”.

“I numeri reali invece no”.

“No, loro no, sono molti di più. Abbiamo dimostrato che è impossibile metterli in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali”.

“E i numeri trascendenti?”.

“Allora, facciamo ordine. Tutti i numeri reali che non sono razionali si dicono irrazionali, ma questa divisione è ancora grossolana. I numeri costruibili con riga e compasso sono solo una parte degli irrazionali. Una piccola parte”.

“Piccola?”.

“Sì, sono ancora un'infinità numerabile. Ma addirittura tutti i numeri che sono soluzioni di equazioni polinomiali sono una piccola parte degli irrazionali”.

“Ma dai”.

“Sì, questi numeri si chiamano numeri algebrici”.

“Santo cielo, ma quante categorie ci sono?”.

“Eh, un po'. Ma lasciami spiegare perché i numeri algebrici sono pochi. Sai che un'equazione polinomiale ha, al massimo, tante soluzioni quanto è il suo grado”.

“Sì”.

“Quante equazioni polinomiali esistono?”.

“Infinite, naturalmente”.

“Certo, ma formano un'infinità numerabile o non numerabile?”.

“Non ne ho idea”.

“Beh, un'equazione polinomiale è identificata dai suoi coefficienti”.

“Sì, ci sarà un termine noto, un coefficiente del termine di primo grado, un coefficiente del termine di secondo grado, e così via”.

“Ottimo. Come vedi, stai contando i coefficienti”.

“Ah”.

“Li stai mettendo in corrispondenza biunivoca con i numeri naturali”.

“Già”.

“E quindi questi coefficienti costituiscono un'infinità numerabile. E allora anche tutte le equazioni polinomiali sono un'infinità numerabile, e così le loro soluzioni, che chiamiamo numeri algebrici”.

“Gulp”.

“Quindi i numeri irrazionali non algebrici, che vengono chiamati trascendenti, sono molti di più. Infinitamente di più”.

“Mamma mia. Comincio a pensare che la dimostrazione del fatto che pi greco è trascendente non sia proprio semplice semplice”.

“Pensi bene: se la dimostrazione è del 1882 significa che è difficile”.

“E non è che ora me la vuoi spiegare nel dettaglio, vero?”.

“No, è troppo difficile, bisogna mettersi d'impegno e studiarla in dettaglio. Col rischio di non capirne il senso, se non si cerca prima di avere un'idea di quello che si sta facendo. Bisogna capire, prima, qualche proprietà di questi numeri trascendenti, che non sappiamo nemmeno nominare”.

“In che senso?”.

“Beh, noi possiamo dare nomi solo a un'infinità numerabile di numeri”.

“Cosa?”.

“Esiste un numero finito di lettere dell'alfabeto. Con quelle puoi fare infinite parole, ma sono certamente un'infinità numerabile: puoi fare un gigantesco dizionario e mettere tutto in fila”.

“Come la biblioteca di Babele!”.

“Quasi. La biblioteca di Babele, pur enorme, contiene un numero finito di libri. Ogni libro ha 410 pagine, e pur considerando tutte le permutazioni di caratteri che esse possono contenere, si arriverà a un certo punto alla fine. Le parole che invece potremmo usare per definire i nostri numeri non hanno nessuna limitazione, e quindi potremmo costruirne un'infinità. Solo numerabile, però”.

“Quindi esistono numeri che non solo non potremo mai conoscere, ma che non potremo nemmeno chiamare per nome, come invece facciamo con pi greco?”.

“Ne esistono tantissimi, sì. Più delle parole che potremo mai inventare”.

“Mi gira la testa”.

“Capisco. Ma un po' ci vengono in aiuto le care frazioni: ogni numero irrazionale può essere approssimato, bene quanto si vuole, con delle frazioni”.

“Che è quello che facciamo in realtà quando facciamo calcoli con i numeri irrazionali, vero?”.

“Esatto: nessuna calcolatrice e nessun computer ha infinita memoria per poter contenere le infinite cifre di un numero irrazionale. Però i numeri algebrici e i numeri trascendenti si comportano in modi un po' diversi quando cerchiamo di approssimarli con le frazioni”.

“In che senso?”.

“Nel senso che i numeri algebrici possiamo approssimarli bene quanto vogliamo, ma non troppo”.

“Eh?”.

“Immagina di approssimare pi greco con delle frazioni: come puoi fare?”.

“Potrei scrivere 3/1, 31/10, 314/100, 3141/1000, e così via”.

“Giusto. Non è detto che questo sia il miglior modo di procedere, ma rende l'idea: se vuoi migliorare l'approssimazione, devi usare numeratori e denominatori sempre più grandi”.

“Certo, se voglio produrre più cifre decimali, mi sembra ovvio che devo aggiungere zeri al denominatore: è la notazione scientifica”.

“Ti sembra ovvio, ed è un bene, tieni presente però che la scelta di mettere al denominatore una potenza di 10 potrebbe non essere la scelta migliore. Si potrebbe fare meglio, insomma”.

“Ma cosa significa fare meglio di una approssimazione con un grado di precisione alto quanto vogliamo?”.

“Significa che, a parità di numero di cifre di numeratore e denominatore, esistono frazioni che approssimano pi greco meglio delle tue. Per esempio, Archimede, con i suoi poligoni di 96 lati, è arrivato a approssimare pi greco con le due frazioni 223/71 e 22/7, la prima per difetto e la seconda per eccesso”.

“Fammi fare i conti: 223/71 fa 3.1408 e 22/7 fa 3.1429. Le prime due cifre dopo la virgola sono esatte”.

“Mentre la tua frazione con due cifre al denominatore è 31/10 che approssima bene solo la prima cifra dopo la virgola”.

“Ah, ecco cosa intendevi. Io per approssimare bene anche la seconda cifra devo scrivere 314/100”.

“Pensa che con denominatori di tre cifre si possono approssimare bene le prime sei cifre dopo la virgola”.

“Cosa?”.

“Eh, sì. La frazione 355/113 è uguale a 3.14159204, le prime sei cifre dopo la virgola sono corrette”.

“Ma tu guarda. Bellina questa frazione”.

“Pensa che ha anche un nome: si chiama Milü, una parola cinese che significa più o meno frazione che approssima bene”.

“Eh eh, mi piace. Ma come mai cinese?”.

“Perché fu coniata dal matematico e astronomo cinese Zu Chongzhi nella seconda metà del quattrocento”.

“Ah, immagino quindi che abbia scoperto questa approssimazione più o meno quando l'hanno scoperta i matematici europei”.

“No, no, hai capito male. Parlo proprio del quattrocento, non del millequattrocento. Questo signore ha dato ai cinesi un'approssimazione straordinaria di pi greco mille anni prima che fosse conosciuta in Europa”.

“Gulp”.

“Quindi, per tornare alle buone approssimazioni dei numeri irrazionali: fissato un denominatore, come sono fatte le frazioni che meglio approssimano un numero irrazionale? Quanto bene si può approssimare un certo numero con una frazione che al denominatore ha due cifre? Tre cifre? n cifre?”.

“Ah, ecco cosa intendevi”.

“Già. Ecco una tabella delle migliori frazioni che approssimano pi greco, con, a fianco, l'errore”.

22/7            3.142857142857  0.00126448926735
355/113         3.141592920353  2.66764189405e-07
312689/99532    3.141592653618  2.91433543964e-11
146408/364913   3.141592653591  1.61071156413e-12
5419351/1725033 3.141592653589  2.22044604925e-14

“Ah, ecco 22/7 e 355/113. Come mai non hai elencato frazioni con quattro cifre al denominatore?”.

“Perché nessuna di loro approssima meglio pi greco di quanto non faccia 355/113.”.

“Ma tu guarda, non sapevo queste cose”.

“Ora ti mostro le migliori approssimazioni per radice di 2:”.

7/5             1.400000000000  0.0142135623731
99/70           1.414285714285  7.21519126192e-05
1393/985        1.414213197969  3.64403552e-07
8119/5741       1.414213551646  1.07270403671e-08
114243/80782    1.414213562427  5.41782174679e-11
665857/470832   1.414213562374  1.59472435257e-12
9369319/6625109 1.414213562373  8.21565038223e-15


“Compaiono denominatori di tutte le lunghezze, da 1 a 7”.

“Sì, anche se da un paio di esempi non si possono estrarre regole”.

“Ah, certo”.

“Però c'è qualcosa che si può dire, su queste approssimazioni”.

“Che cosa?”.

“Che i numeri algebrici rispettano certe regole, i trascendenti no”.

“Già, loro trascendono”.

lunedì 9 ottobre 2017

La quadratura del rettangolo babilonese, ovvero come verificare se un numero è un quadrato perfetto

Giocherellando sul Project Euler mi sono imbattuto in un problema interessante dal punto di vista della programmazione: come si verifica che un numero (naturale, naturalmente) è un quadrato perfetto?

Non sempre la cosa più ovvia funziona quando si ha a che fare con un computer. La prima idea che può venire in mente è: prendo il numero, faccio la radice, butto via i decimali, elevo al quadrato: se sono ritornato al numero di partenza vuol dire che quello era un quadrato perfetto. Ma i computer fanno fatica a lavorare con i numeri decimali, soprattutto se le cifre dopo la virgola sono tante. O, anche, se le cifre prima della virgola sono tante, perché di solito si usa un certo numero di bit per memorizzare un numero decimale: o c'è spazio per le cifre dopo la virgola, o c'è spazio per le cifre prima della virgola. La coperta è corta, e il rischio che le approssimazioni possano portare a fare errori c'è.

Per esempio, se chiedo alla calcolatrice del mio cellulare di calcolare la radice di 1026354952677384900, ottengo 1013091779.00. Quindi quel numerone è un quadrato perfetto? Cosa c'è dopo la virgola? Un ingegnere direbbe:

“Ma cosa ti importa della terza cifra dopo la virgola di numero di 19 cifre? La NASA usa 15 cifre decimali per pi greco, e ci manda foto da Plutone. Tu cosa devi farci con quel numero?”.

E avrebbe anche ragione. Quel numero è sufficientemente quadrato per quasi tutti gli scopi pratici che mi possono venire in mente, ma in realtà non è davvero un quadrato: 1013091779= 1026354952677384841 e, quindi, esiste almeno un'applicazione pratica che non funzionerebbe: non sarei in grado di rispondere correttamente a un quesito del Project Euler.

Come si può risolvere, allora, questo problema?

Esiste un metodo veloce per calcolare le radici quadrate, che risale ai babilonesi, e che può essere visto come caso particolare di un metodo che usa idee matematiche più avanzate e che si chiama metodo di Newton (esistono metodi ancora più veloci da implementare su un computer, che è in grado di fare le moltiplicazioni più velocemente di quanto non riesca a fare le divisioni, ma pazienza).

Funziona così.

Abbiamo un numero, per esempio 81, e vogliamo calcolarne la radice quadrata. Cioè vogliamo conoscere il lato di un quadrato di area 81. Detto in altri termini, tra tutti i rettangoli aventi area 81 vogliamo trovare quello che ha due lati uguali.

Allora consideriamo uno di questi rettangoli. Supponiamo di essere scarsi come un computer e di non riuscire a indovinare il rettangolo giusto, e quindi partiamo stupidamente dal rettangolo di dimensioni 1×81.

Ora l'idea geniale dei babilonesi: prendiamo i due lati e facciamone la media, ottenendo (1 + 81)/2 = 41. Questo numero sta dentro all'intervallo che va da 1 a 81 e, quindi, può essere usato come nuovo lato di un rettangolo che ha area 81 ma che è meno rettangolo di quello di prima (il nostro amico ingegnere, che nel frattempo sta decodificando un segnale proveniente dalla Voyager 1, sta sorridendo).

Quale sarà l'altezza di questo nuovo rettangolo che possiede meno rettangolicità del precedente? Basta fare la divisione 81/41 = 1.976. Ora abbiamo un rettangolo di dimensioni 41 × 1.976, che vorremmo fare diventare ancora meno rettangolo: possiamo ripetere il procedimento di prima.

Calcoliamo la media tra questi due numeri: (41 + 1.976)/2 = 21.488, ed ecco un nuovo lato ancora più corto. La nuova altezza sarà 41/21.488 = 1.908, e andiamo avanti così. Il procedimento dovrebbe essere chiaro: facendo la media tra base e altezza, ogni volta accorciamo un po' il lato lungo del rettangolo e allunghiamo quello corto, approssimando sempre di più la nostra figura a un quadrato. Quando abbiamo raggiunto abbastanza decimali ci fermiamo, e quella è la radice quadrata.

“Ma questo non risolve il tuo problema da matematico! Anzi, se tu avessi studiato le tabelline sapresti che 81 è un quadrato perfetto, mentre questo metodo trova sempre approssimazioni più precise, ma non è detto che finisca mai esattamente sul 9”, direbbe il nostro amico ingegnere, dopo aver fatto atterrare una sonda su una cometa.

E avrebbe ancora ragione, ma questa era solo un'introduzione al metodo che serve per verificare se un numero è un quadrato perfetto. L'idea, ora, è quella di usare solo numeri interi, e costruire rettangoli con lati interi che meglio approssimano un quadrato. E poi vedere che succede: o arrivo a un quadrato vero, oppure non ci riesco.

Vediamo l'esempio dell'81.


  • Parto da un rettangolo 1×81.
  • Faccio la media dei lati: (1 + 81)/2 = 41.
  • Calcolo la nuova altezza, buttando via eventuali decimali: 81/41 = 1.
  • Il rettangolo 1×41 è un quadrato? No. Continuo.
  • Faccio la media dei lati: (1 + 41)/2 = 21.
  • Calcolo la nuova altezza, buttando via eventuali decimali: 81/21 = 3.
  • Il rettangolo 3×21 è un quadrato? No. Continuo.
  • Faccio la media dei lati: (3 + 21)/2 = 12.
  • Calcolo la nuova altezza, buttando via eventuali decimali: 81/12 = 6.
  • Il rettangolo 6×12 è un quadrato? No. Continuo.
  • Faccio la media dei lati: (6 + 12)/2 = 9.
  • Calcolo la nuova altezza, buttando via eventuali decimali: 81/9 = 9.
  • Il rettangolo 9×9 è un quadrato? Sì. Fine.


Funziona.

Cosa succede nel caso in cui, invece, il numero non sia un quadrato?
Ripetiamo il procedimento applicandolo a 80.


  • Rettangolo 1×80.
  • Media dei lati: (1 + 80)/2 = 40.
  • Nuova altezza: 80/40 = 2.
  • Rettangolo 2×40.
  • Media dei lati (2 + 40)/2 = 21.
  • Nuova altezza: 80/21 = 3.
  • Rettangolo 3×21.
  • Media dei lati: (3 + 21)/2 = 12.
  • Nuova altezza: 80/12 = 6.
  • Rettangolo 6×12.
  • Media dei lati (6 + 12)/2 = 9.
  • Nuova altezza: 80/9 = 8.
  • Rettangolo 8×9.
  • Media dei lati (8 + 9)/2 = 8.
  • Nuova altezza: 80/8 = 10.
  • Rettangolo 10×8.
  • Media dei lati (8 + 10)/2 = 9.
  • Nuova altezza: 80/9 = 8.
  • Rettangolo 8×9.

Ehi, ma questo rettangolo l'ho già visto: la forma del rettangolo non si stabilizza verso un quadrato. 80 non è un quadrato perfetto.

Quindi il metodo funziona in questo modo: o arrivo a un quadrato perfetto, o arrivo a un rettangolo che ho già incontrato prima, e quindi mi fermo. Fatto.

Ed ecco un pezzetto di codice in python:



Grazie a stackoverflow e a Alex Martelli, che già sapeva cose ai tempi di Fidonet.

giovedì 14 settembre 2017

Carnevale della Matematica #111 e mezzo

“Ma come 111 e mezzo? Non avevi detto che ne facevate uno al mese?”.

“Eh, sì, ma qua basta un attimo per spezzare una routine e fare sballare tutti i tempi”.

“E allora, che è successo?”.

“È successo che mancava la cellula melodica”.

“La cellula melodica, certo”.

“Hai presente il teorema di fattorizzazione unica?”.

“Eh, ne hai parlato per mezz'ora, figurati”.

“Bene, nella poesia gaussiana a ogni numero primo veniva associato un verso”.

“Sì”.

“Se, invece, a ogni numero primo associ una nota musicale, ecco che ottieni la cellula melodica”.

“Non oso pensare a come possa suonare una melodia siffatta”.

“Ti accontento subito”.



“Argh! Ma di chi è stata l'idea?”.

“Di Flavio Ubaldini, che è arrivato in ritardo per il Carnevale 111. E quindi ecco qua il Carnevale numero 111.5, primo della sua stirpe, il Carnevale Frazionario”.

“L'ho già detto che siete pazzi. E tutto questo per una cellula melodica?”.

“No, ci sono anche i contributi di Flavio, che non erano stati inseriti nel vecchio Carnevale”.

“Vecchio! È di stamattina! E quali sono questi contributi di Flavio?”.

“In realtà il suo contributo è un libro, che si intitola Il mistero del suono senza numero. Sul suo blog Flavio ha raccolto alcune recensioni, eccole qua”.

L'amore ai tempi di Pitagora.

Fatevi un favore: regalatevi questo libro, in special modo se la matematica non vi è mai piaciuta.

Musica e matematica: un connubio perfetto!

Presentazione del libro a Crotone, la città del protagonista.

Presentazione del libro ad Arce.

“Allora possiamo dire che oltre a Flavio ci sono stati anche altri contributori per il Carnevale”.

“Esatto”.

“E se domani arriva un altro contributo, che fai? Il Carnevale 112?”.

“Ah, no, quello sarà il prossimo mese. Ci potrà essere invece il Carnevale 111 e tre quarti, poi 111 e sette ottavi, 111 e quindici sedicesimi, e così via”.

“Santo cielo”.

“Pensa, una cellula melodica frazionaria e potenzialmente infinita”.

“Rabbrividisco”.

Carnevale della matematica #111

Il merlo gorgheggiando.


“Ma cos'è questa storia del merlo? In tutti i Carnevali della Matematica scrivete cose assurde su un povero merlo”.

“È colpa del teorema fondamentale dell'aritmetica”.

“Teorema che parla di merli, ovviamente”.

“In realtà parla di numeri naturali ma, volendo, lo si può anche far parlare di merli”.

“Cioè, decidiamo noi se un teorema parla di numeri o parla di merli?”.

“Diciamo che decidiamo noi come chiamare i numeri”.

“Ancora peggio! Adesso non mi dirai che se un 3 diventa un 2 tutto funziona come prima”.

“Non è che il 3 diventi davvero un 2: decidiamo semplicemente di dargli un altro nome, ma sarà sempre un 3. Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo 3 anche con un altro nome conserva sempre il suo valore di brutto voto”.

“…”.

“Suvvia, conosci certamente il teorema fondamentale dell'aritmetica”.

“Che domande”.

“È quel teorema che dice che ogni numero naturale, a parte 1, o è un numero primo…”.

“…ok, i numeri primi so cosa sono”.

“Oppure, se non è un numero primo, si può scomporre in un prodotto di numeri primi e, cosa molto importante, questa scomposizione è unica. Ovviamente non dobbiamo tenere conto dell'ordine in cui scriviamo i fattori”.

“Quando i Veri Matematici dicono ovviamente significa che bisogna leggersi almeno un paio di libri prima di capire cosa ci sia di tanto ovvio”.

“Potresti aver ragione, ma in questo caso è facile: prendiamo ad esempio il numero di questo carnevale, il 111”.

“Non credo che sia primo. No, non lo è, la somma delle sue cifre è 3, quindi è divisibile per 3”.

“Esatto. Quindi 111 è uguale a 3×37, oppure 37×3”.

“Ma è la stessa cosa”.

“Certo, i due fattori sono 3 e 37, e il loro prodotto non dipende dall'ordine in cui essi vengono scritti”.

“Ah, ecco cosa volevi dire quando dicevi che non dobbiamo tenere conto dell'ordine in cui scriviamo i fattori. Se invece ne tenessimo conto, è ovvio (ah, l'ho detto!) che la scomposizione non è detto che sia unica”.

“Molto bene”.

“E com'è invece che se non teniamo conto dell'ordine la scomposizione è unica? Cioè, è una cosa che si impara alle medie, e dopo la si dà sempre per scontata, ma se ci penso non è mica del tutto ovvio. Cioè, per la somma le cose non funzionano così, io posso scrivere 111 come somma di due, o anche più addendi, in tanti modi diversi”.

“Eh, non è una cosa semplice. I miei ricordi di anziano ormai vacillano, ma io credo di aver visto una dimostrazione, o almeno un'idea di dimostrazione, alle medie. Adesso nessuno lo fa più”.

“Uhm, l'avevo detto che le cose che sembrano scontate sono quelle difficili”.

“Tutto parte da Euclide. Proposizione 30 del libro VII: se un numero primo divide il prodotto di due numeri, allora divide almeno uno dei due”.

“Oserei dire che è ovvio”.

“Eh, siamo alle solite. Se vuoi dimostrarlo, devi ragionare un po'. Euclide, tradotto in linguaggio moderno, dice questo: supponi che p sia un numero primo che divide ab”.

“Ok”.

“Supponi ora che esso non divida a. Questo significa che non ha fattori comuni con a, cioè che è primo rispetto ad a”.

“Giusto”.

“Però p divide ab, quindi si può calcolare ab/p, che è un numero naturale che indichiamo con c”.

“Bene”.

“Ma allora è come dire che a/p = c/b”.

“Sì, giusto, mi basta portare b al denominatore a destra”.

“E, dato che a e p sono primi tra loro, la frazione a/p è ridotta ai minimi termini”.

“Bene, vero, non si può semplificare di più, altrimenti a e p avrebbero fattori comuni”.

“E allora la frazione c/b, che deve essere uguale a a/p, si otterrà da essa moltiplicando numeratore e denominatore per un certo numero. In sostanza, b è multiplo di p o, detto al contrario, p divide b”.

“Ah, quindi se p non divide a, allora deve dividere b. Ok, la proposizione 30 è vera”.

“Poi serve la proposizione 31: ogni numero che non sia primo è divisibile per almeno un numero primo”.

“E anche questa sembra ovvia”.

“Certo. Quindi la dimostrazione non lo è”.

“Capirai”.

“Considera un numero composto a. Significa che è il prodotto di almeno due numeri”.

“Certo”.

“Chiama uno dei suoi fattori b. Puoi calcolare certamente a/b”.

“Naturalmente. Immagino che chiameremo c il risultato”.

“Molto bene. Ora, se c è primo, abbiamo dimostrato la proposizione”.

“E se non lo è?”.

“Se non lo è andiamo avanti. Ripetiamo il procedimento con c”.

“E prima o poi questo procedimento avrà fine”.

“Certo. Euclide lo dà per scontato, ma volendo ci sarebbe da dimostrare persino questa affermazione, che dice che ogni successione decrescente di numeri naturali è finita”.

“Vabbé, dai, questo è vero, i numeri naturali non vanno sotto lo zero, santo cielo”.

“Va bene, va bene, diamolo per dimostrato. Ora ci serve la proposizione 32, che dice: ogni numero o è primo o è divisibile per un numero primo”.

“Questa è davvero ovvia, dai”.

“Sì, è vero, diciamo che è un riassunto di quanto detto in precedenza. Ora cambiamo libro, andiamo alla proposizione 14 del libro IX: il minimo comune multiplo tra due o più numeri primi è divisibile solo per ciascuno di quei numeri primi”.

“Mi sembra evidente”.

“E ora lo dimostriamo: immagina che a sia il prodotto dei due numeri primi p e q. Supponiamo per assurdo che esista un numero primo e diverso da p e q che divida a”.

“Va bene. Facciamo la divisione, suppongo?”.

“Esatto: facciamo la divisione a/e, che è un numero naturale che chiamiamo f. In altri termini, a = ef. Ora, per quanto abbiamo dimostrato in precedenza, uno dei due numeri primi p oppure q deve dividere almeno e oppure f”.

“L'abbiamo detto, vero”.

“Non possono dividere e, perché è primo”.

“E allora divideranno f”.

“Ma f è minore di a, dato che è il risultato della divisione a/e”.

“Vero, quindi?”.

“Quindi non va bene, perché a è il minimo comune multiplo tra p e q, e quindi f non può essere un multiplo ancora più piccolo”.

“Ah! Bene, quindi anche questa proposizione è vera”.

“E questa proposizione dice, in sostanza, che la decomposizione in fattori primi è unica: il minimo comune multiplo tra due o più numeri primi è il loro prodotto, ed esso è divisibile solo per quei numeri primi, non ci sono altri modi”.

“Molto bene”.

“Ora, questa è una dimostrazione antica, con un po' di cose lasciate al lettore. Per esempio, in questa dimostrazione di unicità non si parla di potenze con cui compaiono in vari fattori primi. Ma la dimostrazione più rigorosa non è molto più difficile, è solo scritta in linguaggio più moderno e preciso”.

“Va bene. Ancora non mi hai spiegato però cosa c'entri il merlo”.

“Ecco, a ogni numero primo viene associato un verso di una poesia. Quindi a ogni numero d'ordine del Carnevale della Matematica, tramite la sua scomposizione in fattori primi, vengono associati uno o più versi. Quello che corrisponde al 3, per esempio, è proprio Il merlo”.

“Stai scherzando”.

“No, no. Al carnevale numero 81, che è 3 elevato alla 4, è associato il verso il merlo, il merlo, il merlo, il merlo”.

“No, dai”.

“A 64 sarebbe associato il verso canta, canta, canta, canta, canta, canta, ma l'idea geniale della poesia Gaussiana è nata dopo quel carnevale, e quindi nessuno ha mai scritto un commento su quei versi immortali”.

“Bene, siete impazziti”.

“Ma molto poliedrici”.

“Santo cielo. E, per questi carnevali, fate anche altro o vi mettete soltanto a declamare poesie?”.

“Oh, no, ogni partecipante può scrivere post di argomento matematico e inserirli nel carnevale. Per esempio, tanto per cominciare, abbiamo Annalisa Santi, che scrive sul blog Matetango”.

“Ah, un nome che promette bene”.

“Il titolo del suo post è: La matematica diventa magia… nel laberinto”.

“E cos'è questo laberinto?”.

“Ecco la presentazione, scritta direttamente da Annalisa: un curioso libro del XVII secolo, il Laberinto, ideato dal nobile veneziano Andrea Ghisi, sembrerebbe un gioco pensato per Internet con quattrocento anni di anticipo e fa capire come usavano i numeri per leggere nel pensiero quattro secoli fa. Grazie al certosino lavoro di Mariano Tomatis, all'interno dell'articolo si trova anche il link per accedere al gioco o meglio alla lettura del pensiero, un'esperienza che si potrebbe definire appunto di tecno spiritismo!”.

“Benissimo, lo spiritismo”.

“Poi abbiamo .mau., che ha scritto un sacco di roba. Perché per l'estate il Carnevale è stato sospeso, ma lui non ha smesso di scrivere. Intanto comincia col dire che di quizzini ce ne sono stati troppi, e quindi ci indica soltanto la categoria che raccoglie tutto quello che ha scritto a riguardo: http://xmau.com/wp/notiziole/category/giochi/”.

“Perfetto”.

“Poi, ecco un po' di recensioni di libri che ha letto:”.
“Non si può dire che sia uno che non legge”.

“Decisamente no. Passiamo poi alla categoria povera matematica:”.
“Ah, divide pure le cose che scrive in categorie”.

“Eh sì, c'è un sacco di roba. Per la categoria matematica light ha scritto Invalsi e terza media - qualche considerazione sui test dati e sulla loro applicabilità; e infine un obituary per la matematica Maryam Mirzakhani”.

“Uh, ne avevo sentito parlare: mi dispiace”.

“Già, è una notizia che ha rattristato molto il mondo dei matematici. E, suppongo, anche di chi non è matematico ma la conosceva, qualche giornale ne aveva parlato”.

“Meno male”.

“Ma andiamo avanti, c'è poi tutta la parte di interventi scritti sul Post”.

“Ancora?”.

“Certo, eccoli qua. Ha parlato per due volte del compito di matematica alla maturità: La bicicletta a ruote quadrate, e Ancora sulla bicicletta a ruote quadrate. Il suo punto di vista (e anche il mio, a dirla tutta) è che il problema non era difficile per come era stato proposto (teleguidato...) ma solo spiazzante, il che non è poi così male visto che c'era un secondo problema che si poteva scegliere. In 4 chilometri cubi di rifiuti mostra come alcuni giornalisti si siano dimenticati le equivalenze, forse per l'euforia relativa al concerto di Vasco Rossi; Un quizzino non proprio così facile racconta di uno di quei quizzini di Facebook che non era esattamente alla portata di chi non avesse studiato teoria dei numeri parecchio avanzata; Perché il meteoterrorismo non funziona, dice di non credere alle previsioni a lunga durata perché sono intrinsecamente impossibili se non come possibilità; infine ci sono gli usuali Problemini per ferragosto con relative risposte”.

“Nient'altro?”.

“Per quanto riguarda .mau., basta così. Ma ora arrivano quei disgraziati dei Rudi Mathematici”.

“Perché disgraziati, poverini?”.

“Perché durante l'estate, con l'eccezionale sospensione della pubblicazione del Carnevale, loro ne hanno fatto uno che celebra proprio il Carnevale, sulle pagine della loro prestigiosa rivista di matematica ricreativa”.

“Un meta-carnevale”.

“Già. E adesso, belli tranquilli, mi hanno mandato un lungo elenco di contributi per questo Carnevale. Non faccio nemmeno la parafrasi della letterina che mi hanno mandato, ma la scrivo qua sotto così come mi è arrivata”.

Fermeremo il calcolo sulla battigia” è un brillante articolo della serie dei PM (Paraphernalia Mathematica) originato come al solito dalla tastiera di Rudy. Ci si arrabatta alla grande col Diagramma di Voronoi, e naturalmente nel bel mezzo dell’articolo fa la sua comparsa anche la battigia (non il bagnasciuga) che dà il titolo al post.

Invece, “Mentalis” è tutta un’altra roba, dacché appartiene alla prodigiosa collana dei giochi che un bel dì decidemmo di chiamare Zugzwang! (termine germanico che tutti gli scacchisti conoscono e odiano). Questo era un vero e proprio gioco commercializzato negli Anni Settanta, con tanto di pedine e di scacchiera (che assomiglia tantissimo alla bandiera della Guinea, peraltro).

Siamo pronti a scommettere che sono tanti quelli che non conoscono Karen Keskulla Uhlenbeck, e ciò è male. Per fortuna, nonostante la calura agostana, c’è stata la nostra Alice che si è erta (come sempre fa) a paladina delle matematiche – nel senso delle studiose di matematica, non delle varie discipline della matematica – e così i “tanti” di cui sopra potranno rapidamente rimediare alla lacuna.

Tutti i post che scriviamo sul blog li scriviamo esclusivamente per il puro gusto di intrattenere/infastidire (barrare la voce che non interessa) i lettori, e per puro ludibrio personale. Esiste una sola eccezione canonica, ovvero il celebre “post di soluzione” in cui siamo contrattualmente tenuti a discettare del problema che viene (miracolosamente e magicamente) ancora pubblicato con le nostre firme sull'augusta “Le Scienze”. Questo mese il problema si intitolava “Di scacchiere, di note e di robot”, e va da sé che il post relativo abbia il medesimo titolo.

Non è ancora finita, ahimè (e soprattutto ahitè); in quel di Settembre, si è librato per l’etere un post della serie dei Canterbury Puzzles, che parlava di un contadino in ambasce. Il titolo esatto è in realtà “L’enigma del(l’altro) Contadino”, e siccome siamo tanto originali eviteremo con cura le trite battute sulle scarpe grosse e il cervello fino.

Ci siamo quasi, la fine del tunnel è vicina! Resta solo da menzionare un altro brillante PM, in cui il GC e CG (leggasi Carl Gauss) discettano su curve e curvature, e lo fanno senza tirare in ballo né playmate né velocità ultraluce di Star Trek. Si trova tutto in “Dato un pianeta, non necessariamente sferico…”.

Et de hoc satis, dicevano i centurioni assestando piattonate di gladio sull'elmo dei legionari ‘mbriachi. La piantiamo qui, con la solita, ormai canonica dichiarazione di intenti: il settembrino RM224 non è ancora pronto, ma è quasi pronto; probabilmente non ce la farà ad uscire prima del CdM, ma probabilmente ce la farà ad uscire molto poco dopo. Forse. Insomma, il link http://www.rudimathematici.com/archivio/224.pdf può essere un triste accelerato che porta gli sfortunati lettori del tuo CdM alla mesta stazione dell’errore 404, o un Millennium Falcon che in men che non si dica li sbarcherà verso i prestigiosi lidi della Matematica Arruffata. Tutto da dipende da quale sia il giorno e l’ora in cui ci cliccano sopra (e dalla pigrizia dei tenutari del link).

“Eheheh, molto bene. Vedo comunque che il link funziona già, sono stati bravi”.

“Abbastanza bravi, sì. E ora arriva l'onda anomala dei MaddMaths!”.

“I matematici matti? I mattematici?”.

“Eh, più o meno. Madd sta per matematica, divulgazione e didattica, ma anche mattematici mi pare molto appropriato. Guarda un po' quanta roba. Anche in questo caso non tento nemmeno la parafrasi, lascio parlare direttamente Roberto Natalini”.

Fake papers #4: Gira che ti rigira
In matematica bisogna distinguere in maniera chiara tra articoli che presentano errori di tipo matematico sfuggiti alla peer review (e può succedere!) da articoli che sono invece frutto di comportamenti quanto meno poco attenti da parte del comitato editoriale. In questo numero parliamo di un articolo uscito nel 2017 a nome del Prof. Asset Durmagambetov della “L.N. Gumilyov” Eurasian National University di Astana, in Kazakhstan che dice di aver dimostrato la congettura di Riemann. Sarà vero? Scopriamolo con Claudio Bonanno.

Guido De Philippis e... la regolarità delle soluzioni
Guido De Philippis, classe 1985, è attualmente Professore Associato alla SISSA di Trieste e si occupa di Calcolo Delle Variazioni, Equazioni alle Derivare Parziali e Teoria Geometrica della Misura. Nel 2016 ha vinto il premio EMS (European Congress of Mathematics) ed è di pochi giorni fa la notizia che è stato invitato a tenere una conferenza di sessione al prossimo Convegno Internazionale dei Matematici ICM2018 di Rio di Janeiro. Intervista raccolta da Maya Briani.


Fantamatematica

La bicicletta con le ruote quadrate: forse non tutti sanno che...
Uno dei problemi di matematica della Maturità di quest'anno aveva per protagonista una bicicletta con le ruote quadrate. Un mezzo di locomozione che può sembrare insolito... a cura di Stefano Pisani


Uno sguardo oltre la superficie

Sui boomerang, triangoli e la curvatura dell’universo
Siamo alla terza puntata della rubrica "Uno sguardo oltre la superficie", a cura di Giuseppe Tinaglia. Uno spazio dove si osserva la geometria che ci circonda, ma anche oltre.

3D lo spazio: il teatro geometrico
Continua la rubrica "Spazio agli Spazi", a cura di Sandra Lucente, che si occupa di dimensioni. Ogni mese un piccolo racconto per visitare mondi dimensionalmente diversi. Questo mese Sandra ci parla della Dimensione 3.

Le origini del popolo malgascio, alcune certezze e qualche mistero
Con imbarcazioni simili a quelle della foto qui a lato (a bilanciere dell'etnia Vezo in Madagascar) ma molto più grandi, gli antenati dei malgasci arrivarono dall'Indonesia. Ma chi erano veramente questi antenati? E quando sono arrivati? Maurizio Serva ci racconta come, con l'uso di alcuni algoritmi lessicostatistici, sia possibile fare un po' di luce su questi misteri

Di alberi, passeri e dell’ora del tramonto
Esistono in natura i problemi computazionalmente difficili? E se esistono, come vengono risolti? Di questo, ma anche di alberi e passeri, e di tramonti, ce ne parla Manlio Gaudioso.


Angolo arguto

Possibile che funzioni continue siano discontinue? E viceversa?
Dopo una ventina di anni con studenti del primo anno di Analisi Matematica, nella speranza di rimuovere un errore troppo frequente, Sandra Lucente ha indossato una t-shirt con la scritta “la funzione f(x) = 1/x è continua senza se e senza ma”. La foto di quella maglietta apparsa sui social ha innescato un dibattito sulla presentazione didattica del concetto di continuità. Questo articolo di Sandra Lucente riassume le varie perplessità emerse e invita ad una lettura critica dei libri di testo delle scuole superiori, spesso imprecisi su questo argomento.

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È uscito il numero 2/2017 di Archimede



È da poco stato stampato il n. 2/2017 della rivista Archimede. E come al solito, leggiamo il sommario del direttore Roberto Natalini: "Questo numero si apre con Giuseppe Pirillo, che indaga sulla affascinante possibilità che la Scuola Pitagorica possa essersi imbattuta nella successione di Fibonacci. Continuiamo con una riflessione di Giuliano Mazzanti, Valter Roselli e Luigi Tomasi su una proprietà della parabola a cavallo fra geometria e analisi e con l'articolo di Maria Chiara Nasso su come si calcola la superficie della sfera (è meno banale di quanto pensiate). Alberto Saracco ha letto l'ultimo saggio dedicato alla matematica di Marco Malvaldi, lo scrittore pisano diventato famoso con i gialli del BarLume: gli è piaciuto molto. La copertina è di Onofrio Catacchio ed è dedicata a Omar Khayyām, matematico, astronomo, filosofo e poeta persiano vissuto all'inizio dello scorso millennio. A lui è dedicata la storia di Archimedia, “Un kebab con Khayyām” di Giovanni Eccher e Onofrio Catacchio, che si svolge a cavallo tra presente e passato. Tra le rubriche segnaliamo in Archimede logica un articolo di Daniele Porello sulle possibili incoerenze nei giudizi collettivi."   

Le due teste del tiranno, un libro di Marco Malvaldi
Marco Malvaldi è conosciuto dal grande pubblico come autore dei gialli della serie del BarLume, ma di formazione è un ricercatore in chimica industriale. Non sorprende quindi che la sua formazione scientifica lo abbia spinto ad occuparsi di matematica, scrivendo brillanti saggi divulgativi. L'ultimo di questi è quello che viene recensito in questo articolo da Alberto Saracco. Questa recensione è già apparsa nel numero 2/2017 di Archimede.

Archimedia 2/2017: Un kebab con Khayyām
A cominciare dalla sua prima uscita del 2016, Archimede ospita Archimedia, una rubrica di fumetti e altri media curata da Andrea Plazzi. Nel n. 2/2017 trovate "Un kebab con Khayyām", un fumetto di Giovanni Eccher e Onofrio Catacchio. Qui sul sito presentiamo come al solito la prefazione di Andrea Plazzi.

Curiosità olimpiche 4 - In sei a mensa
Dopo una lunga pausa, riprende la rubrica Curiosità olimpiche, con una curiosità riguardante le finali nazionali delle Olimpiadi della Matematica, tenutesi a inizio maggio a Cesenatico. A cura di Alberto Saracco


Ripetizioni, di Davide Palmigiani

Puntata 16: "Orologio"
Che cos'è il doomsday di un anno? E perché è importante saper contare modulo 7? Scopriamolo nella nuova puntata di Ripetizioni

Puntata 17: "Gioco dell'Oca"
Sono riprese le ripetizioni di matematica. Questa volta si parla dei giochi: finiti, infiniti, chissà?
Per finire, non dimentichiamo che nel mese di Agosto abbiamo allietato grandi e piccini con MaddMaths! Estate 2017, ripubblicazione di post più o meno vintage.

“Finito?”.

“Finito, sì. Ed è finito anche il Carnevale di settembre: ci risentiamo a ottobre, proprio da MaddMaths!”.

“E anche per questo mese di roba da leggere ce n'è”.

“Al Carnevale 112, canta melodioso, canta, canta, canta”.

“Santo cielo”.

giovedì 22 giugno 2017

venerdì 9 giugno 2017

Das ist nicht Mathematik. Das ist Theologie.

“Senti, ma com'è questa storia che la dimostrazione del teorema di Didone è sbagliata? O è una dimostrazione, o non lo è!”.

“Vero. Diciamo che è una dimostrazione parziale: Steiner ha dimostrato che, se una soluzione esiste, è quella. Ma non ha dimostrato che esiste”.

“Ma dai, ma cosa vuol dire? Se ha dimostrato che la soluzione è quella, amen, è quella. Cosa c'è da dire ancora?”.

“Eh, non è mica vero. Se c'è è quella, ma forse non c'è”.

“Ma come fa a non esserci? Didone deve circondare la più grande superficie possibile, dato un certo perimetro. Ci sarà pure una figura che ha un'area maggiore di tutte le altre”.

“Sarebbe come dire che tutte le funzioni hanno un massimo, e non è vero”.

“Non è vero? Ah, beh, se hai una funzione che cresce sempre, diventando infinitamente grande, quella certamente il massimo non ce l'ha”.

“Non solo: puoi avere una funzione che cresce, che è limitata, e che non ha massimo”.

“Che è limitata? Vuol dire che non cresce oltre un certo valore?”.

“Esatto”.

“Ma allora il massimo è quel valore!”.

“Eh, no. Prendi una torta”.

“Ah, va bene”.

“Tagliala in un certo numero di fette e dammene una”.

“Ok”.

“Quanta torta ti rimane?”.

“Boh? Tutta meno una fetta”.

“Adesso prendi un'altra torta”.

“Poi ingrasso”.

“Aumenta il numero di fette rispetto a prima, e dammene una. Quanta torta ti rimane?”.

“Sempre tutta meno una fetta”.

“Più o meno rispetto a prima?”.

“Di più: ti ho dato una fetta più piccola”.

“Perfetto. All'aumentare del numero di fette, ti rimarrà sempre più torta”.

“Certo”.

“Quindi la funzione-torta è crescente”.

“Giusto”.

“E non supera mai il volume della torta intera”.

“Certo che no”.

“Quindi la funzione-torta è crescente e limitata”.

“Vero”.

“Però non ha massimo”.

“Uh?”.

“No, cresce sempre. Sempre meno, in realtà, ma cresce sempre senza raggiungere un valore massimo. Se dividi la torta in dieci parti e mi dai una fetta, ti rimarranno nove decimi di torta. Se la dividi in cento parti, ti rimarranno novantanove centesimi, e così via. Se mi dai una briciola, ti rimarrà una torta meno una briciola. Non esiste un valore massimo”.

“Uffa”.

“E allora capisci che dimostrare che se una soluzione esiste, allora essa deve avere un certo valore, non significa dimostrare anche che tale soluzione esiste davvero”.

“Roba da matti”.

“Ricorderai il romanzo di Agatha Christie Assassinio sull'Orient Express?”.

“Certo”.

“Una persona è stata uccisa su un treno in movimento, quindi l'assassino deve essere sul treno”.

“Vero”.

“Ma [spoiler! spoiler!] non è così: l'assassino, inteso come singola persona che ha compiuto l'atto, non esiste. Se poi il morto fosse morto di morte naturale, la mancanza di soluzione sarebbe ancora più evidente (ma, probabilmente, il romanzo sarebbe molto più noioso)”.

“Umpf”.

“Chissà, magari esiste un romanzo in cui i sospetti sono solo dieci, e l'investigatore riesce a scagionarne nove. Verrebbe da dedurre che quindi il colpevole è il decimo perché, se la soluzione esiste, non può che essere quella. E invece il morto non è stato assassinato, è semplicemente morto per cause naturali”.

“Ho capito, ho capito… Adesso mi dirai che ci sono casi, in matematica, in cui si riesce a fare anche il contrario?”.

“Cioè?”.

“Cioè dimostrare che la soluzione esiste, senza sapere quale sia?”.

“Oh, certo”.

“Capirai”.

“C'è un caso molto famoso, in effetti. Nel 1868 il matematico tedesco Paul Gordan, soprannominato il re degli invarianti…”.

“Santo cielo”.

“Eh, oh, è così. Era uno dei massimi esperti della teoria degli invarianti”.

“Una roba di cui non ho mai sentito parlare”.

“Si tratta di algebra astratta…”.

“Come se esistesse dell'algebra concreta! Ma dai”.

“Ehm. Ok. L'algebra astratta è effettivamente più astratta dell'algebra che si studia a scuola”.

“E quindi è totalmente incomprensibile”.

“Diciamo che c'è qualcosa di vero in quello che dici. Ecco perché la gente in grado di comprenderla bene poteva avere soprannomi da cow boy”.

“Perfetto”.

“Quindi c'era questo Paul Gordan, esperto di una particolare teoria algebrica, che aveva ottenuto molti risultati importanti, tra cui un teorema che afferma che una certa classe di polinomi (una classe infinita) poteva essere generata da un insieme finito di generatori”.

“Non ho capito niente”.

“Non ho spiegato quasi niente: la cosa importante è che un insieme infinito può essere descritto in modo semplice, usando solo un numero finito di mattoni. I Veri Matematici sono sempre contenti quando si ha a che fare con un numero finito di oggetti”.

“Va bene. Quindi c'era questo espertone che aveva dimostrato un teorema importante”.

“Esatto. Dopo vent'anni arriva David Hilbert…”.

“Un nome che non mi è nuovo”.

“Già. Nel 1888 non era ancora così famoso, aveva discusso la tesi di dottorato nel 1885, era ancora giovane, ed era molto bravo. Generalizza il teorema di Gordan, astraendo ancora di più il tutto”.

“Andiamo bene”.

“La dimostrazione di Gordan era piena di calcoli, difficilissima da generalizzare perché i calcoli sarebbero diventati proibitivi. E allora Hilbert, con un colpo di genio, aggira il problema. Utilizzando l'induzione, dimostra per assurdo il suo teorema”.

“Per assurdo?”.

“Sì, invece di dimostrare che la tesi del suo teorema deve essere vera, dimostra che è impossibile che sia falsa. E, se non può essere falsa…”.

“Allora deve essere vera. Bello”.

“Già. Ma c'è un problema: con questo tipo di dimostrazione lui non riesce a costruire l'insieme finito di generatori di cui parla il suo teorema. Dice solo che esiste. Anzi, dice che è impossibile che non esista”.

“In sostanza, dice che esiste ma non dice com'è fatto?”.

“Esattamente”.

“E cos'ha detto il matematico che invece aveva fatto un sacco di calcoli, nella versione semplificata del teorema? Gordan?”.

“Eh, Gordan legge la dimostrazione, praticamente senza calcoli, lunga poche righe, si gratta un po' la testa, alza gli occhi, e dice: Das ist nicht Mathematik. Das ist Theologie”.

“Ah ah. E Hilbert?”.

“Hilbert, confortato da Klein, un altro personaggio con un certo cervello, scrive un secondo articolo in cui approfondisce il suo teorema, fa delle stime, e pubblica pure quello. Il mondo matematico riconosce l'importanza del teorema che diventerà noto con il nome di Teorema della base di Hilbert”.

“E Gordan?”.

“Gordan commenta: mi sono convinto del fatto che anche la teologia ha i suoi meriti”.

“Meraviglioso”.

“Già. Riguardo le dimostrazioni di esistenza, avevo scritto qualcosa qualche anno fa: ecco qua”.

“Davvero pane per i filosofi”.

“All'epoca ci furono discussioni animate sulla validità di dimostrazioni di questo tipo, cioè non costruttive. Kronecker morì poco tempo dopo…”.

“Quello che affermava che Dio ha fatto i numeri interi, e che tutto il resto è opera dell'uomo?”.

“Lui”.

“Bel tipo, chissà cosa avrebbe detto riguardo questo tipo di dimostrazioni”.

“Possiamo immaginarlo, perché altri matematici portarono avanti le sue idee. C'è una setta di pazzi che non riconosce dimostrazioni di questo tipo, e che dice che si dimostra solo ciò che si può costruire”.

“Chissà Hilbert”.

“Hilbert soffriva. Una volta disse che togliere a un matematico il principio del terzo escluso, cioè quel principio logico secondo il quale se una affermazione non è vera allora è falsa, perché non esiste una terza possibilità, sarebbe come impedire a un pugile di usare i pugni”.

“Ottimo”.

“E, insomma, la discussione continua ancora oggi. C'è chi non riconosce dimostrazioni non costruttive, e chi addirittura non riconosce in matematica nessun tipo di infinito”.

“Comincio a pensare che questa sia davvero teologia”.

“Già”.

“Ma, alla fine, il problema di Didone ce l'ha o no una soluzione?”.

“Ce l'ha, quella di Steiner. Ma è stata dura dimostrarne l'esistenza”.

giovedì 11 maggio 2017

Il problema di Didone

Giunsero in questi luoghi, ov’or vedrai
Sorger la gran cittade e l’alta ròcca
De la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l’astuta merce
Che, per fondarla, fêr di tanto sito
Quanto cerchiar di bue potesse un tergo.

“Ma cos'è?”.

“L'Eneide, libro 1”.

“E, ehm, di cosa parla?”.

“Della fondazione di Cartagine. L'astuta Didone aveva avuto il permesso di occupare tanta terra quanta ne potesse contenere una pelle di bue. Lei allora prese la pelle di bue, la tagliò in tante striscioline, le collegò insieme, e circondò una zona di terra semicircolare, il cui lato rettilineo era la spiaggia. Sul quel terreno fece costruire Cartagine”.

“Brava questa Didone”.

“Eh sì. E naturalmente i matematici si sono posti un problema”.

“Capirai”.

“Poteva fare di meglio? Poteva circondare una zona di terreno ancora più ampia?”.

“Ovviamente”.

“Eh? Ma no, come?”.

“Le sarebbe bastato prendere un bue più grande. Non mi sembra un gran problema matematico”.

“Ah. Eh. No. Cioè, il problema dice: a parità di lunghezza della striscia fatta con la pelle di bue, si possono circondare zone più grandi?”.

“Ecco, adesso è un po' diverso. Beh, non ha scelto la forma migliore? La semicirconferenza non va bene? Doveva fare un rettangolo? Un quadrato? Una strana figura esistente solo nella mente dei Veri Matematici?”.

“La semicirconferenza va bene, in effetti”.

“E allora, qual è il problema?”.

“Come dimostri che quella scelta da Didone è davvero la superficie di area massima?”.

“Mi sembra ovvio”.

“Le dimostrazioni per ovvietà, però, non sono ammesse tra i matematici”.

“Uff. E quindi?”.

“E quindi bisogna saltare dai tempi di Didone fino al 1838, quando venne pubblicata la dimostrazione di Steiner relativa al problema isoperimetrico”.

“Isoperimetrico, certo”.

“Il problema, formulato in termini matematici, dice questo: tra tutte le figure aventi lo stesso perimetro, qual è quella di area massima? Da cui il termine isoperimetrico”.

“Ah, ok. E quindi nel 1838 è stato dimostrato che Didone aveva scelto la soluzione giusta?”.

“Sì, da Steiner. Con una dimostrazione che, però, era sbagliata”.

“Perfetto”.

“Non troppo però. Adesso te la racconto”.

“Vai. Una dimostrazione non troppo sbagliata. Mah”.

“Bisogna fare questa premessa: Didone aveva a disposizione la spiaggia, cioè un segmento rettilineo, che poteva usare in modo da risparmiare la sua preziosa pelle di bue. Se non puoi usare nessun tipo di segmento, la figura che massimizza l'area è la circonferenza”.

“Mi sembra altrettanto ovvio”.

“Perfetto, questa ovvietà viene dimostrata da Steiner”.

“Sbagliando”.

“Un pochino”.

“…”.

“Steiner afferma, come primo passo della sua dimostrazione, che la figura che risolve il problema isoperimetrico deve essere convessa”.

“Mi sembra ovvio, ma capisco che dirlo non fa fare nessun passo avanti al Vero Matematico Dimostratore”.

“No, certo. Ma immagina una qualsiasi figura che non sia convessa. Ti disegno un poligono, ma va bene anche una figura con lati curvilinei”.



“Ok, quindi?”.

“Mi basta riflettere la parte concava all'esterno, fare diventare la figura convessa, e aumentare l'area senza toccare il perimetro. Guarda”.



“Ah, vedo. Ok, la figura deve essere convessa”.

“Secondo passo: prendo la figura, e la taglio in modo da formare due figure aventi lo stesso perimetro”.

“La taglio a metà”.

“Eh, ma bisogna stare attenti: non la taglio in due parti aventi la stessa area, ma in due parti aventi lo stesso perimetro. Se la figura è tutta deformata, non è detto che sia la stessa cosa”.

“E quindi?”.

“E quindi se le due parti non hanno la stessa area, buttiamo via la parte con area minore e la sostituiamo con una copia di quella con area maggiore: non abbiamo cambiato il perimetro, ma abbiamo aumentato l'area”.



“Mmmh, e questo cosa ci dice?”.

“Che possiamo lavorare solo su mezza figura, facendo come Didone. L'altra metà la otteniamo per simmetria”.

“Mettiamo una spiaggia anche noi, insomma”.

“Esatto. Adesso, prendiamo la nostra mezza figura, e costruiamo un triangolo al suo interno”.



“Ok, che ci facciamo?”.

“Ci domandiamo se è rettangolo”.

“Boh, e chi lo sa? Potrebbe esserlo o non esserlo”.

“Esatto. Se lo fosse, per ogni scelta del punto sulla curva blu, potremmo dire qualcosa”.

“Se ben ricordo, i triangoli rettangoli sono inscritti nelle semicirconferenze”.

“Già. Se, comunque noi scegliamo la posizione del punto sulla curva blu, il triangolo che disegniamo è rettangolo, allora la curva è una semicirconferenza”.

“E, in questo caso, abbiamo Cartagine. Se, invece, il triangolo non fosse rettangolo, come nella figura?”.

“Se il triangolo non fosse rettangolo, noi potremmo modificare la figura, spostando il punto, in modo da ottenere un triangolo rettangolo. Facendo questo non modifichiamo il perimetro della curva blu, ma soltanto la sua forma”.

“In che senso non modifichiamo il perimetro?”.

“Immagina che il triangolo dentro alla figura sia un buco, e che esistano solo le due parti delimitate dalla curva blu, come se fossero due lunette incollate sui lati del triangolo”.

“Ok”.

“Ora modifichiamo l'angolo del triangolo, lasciando le lunette attaccate ai lati, fino a farlo diventare retto. Non cambiamo nessuna misura”.

“Va bene, quindi? Che succede?”.

“Succede che l'area delle lunette non è stata toccata, mentre l'area del triangolo si è modificata. Ti disegno solo il triangolo (perché non sono capace di spostare anche le lunette, ehm)”.


“Vedo, ma non capisco”.

“Devi capire se l'area del triangolo è cambiata”.

“Sicuramente. Cioè, boh, non so, a dir la verità. Abbiamo cambiato solo un angolo, alla fine”.

“Esatto. Ricordi come si calcola l'area di un triangolo…”.

“Base per altezza diviso due!”.

“…di cui conosci due lati, non la base e l'altezza?”.

“Ehm”.

“Ecco qua: conosci i lati b e c, e l'angolo compreso tra essi”.



“Ah, posso trovare l'altezza moltiplicando b per il seno dell'angolo”.

“E quale angolo ha il seno maggiore?”.

“Quello retto, ho capito. Costruendo un triangolo rettangolo massimizziamo l'area, quindi se il triangolo che avevamo inizialmente non era rettangolo, possiamo modificare la curva in modo tale che il perimetro rimanga fisso e aumenti l'area”.

“Conclusione, dice Steiner, la figura che massimizza l'area è quella per la quale ogni triangolo che possiamo costruire al suo interno è rettangolo”.

“Cioè la semicirconferenza. Fine della dimostrazione”.

“Fine della dimostrazione sbagliata”.

“Ma come?”.

“Eh, oh”.

giovedì 9 marzo 2017

La mia signora maestra

Qualche giorno fa una persona mi ha chiesto se fossi disponibile a parlare di un argomento scelto da me a un corso di aggiornamento per insegnanti. Invece di scappare in direzione opposta, urlando e agitando forsennatamente le mani in aria, ho detto: “mh, va bene”.

La domanda successiva è stata: “di quale argomento vuoi parlare?”. E io, sventurato, ho risposto dimostrazioni senza parole.

Una volta riacquistata una parvenza di sanità mentale, ho cercato di capire da dove mi fosse venuta questa fissa delle dimostrazioni senza parole; una formidabile capacità di autoanalisi mi ha fatto risalire molto nel passato, fino alle scuole elementari.

La mia signora maestra (si dice sempre signora, prima di maestra) si chiamava Lidia Botti, nata a Portovenere. La incontrai per la prima volta il primo giorno di scuola (ovviamente), nel cortile della mia scuola, dove lei era scesa per accogliere noi nuovi alunni, fare l'appello, e portarci tutti in classe. Un signore — che, più tardi, riconobbi come il preside della scuola — le si avvicinò e le chiese: “ma lei che qfwfq ha?” (pronunciò una parola che non riconobbi). Ripose: “mille voci”.

Uh, mamma mia, cominciai a pensare, ma com'è brava questa maestra, sa fare mille voci, che roba, io so fare solo la mia, chissà quante cose sa, chissà com'è brava, ma che bello, questa scuola è bellissima.

Solo un dopo un po' di tempo, di cui per amore di dignità non specificherò la durata, mi resi conto che la parola che non avevo ben compreso era sussidiario, e che Millevoci era semplicemente il suo titolo.

Ma torniamo alle dimostrazioni senza parole.

Un giorno la signora maestra venne in classe con uno strano oggetto: un cubo di plexiglass pieno di pezzi di forma diversa.

“Vedete, ragazzi”, cominciò a parlare, “abbiamo studiato le equivalenze, abbiamo parlato delle misure di volume, ecco, guardate, questo è un decimetro cubo”. E ci mostrò questo cubetto di plastica trasparente; poi lo appoggiò sulla cattedra, e tirò fuori una bottiglia di vetro graduata. “Guardate, ho riempito questa bottiglia di acqua, leggete qua, qual è la capacità di questa bottiglia?”.

“Un litro”, rispondemmo.

“Ecco, ora la verso dentro al decimetro cubo. Ricordate l'equivalenza? Ricordate che un decimetro cubo è uguale a un litro?”. Annuimmo. “Bene, ecco fatto, il litro d'acqua ha riempito tutto il decimetro cubo, visto?”. Eh, cavoli, ho pensato, ma allora è proprio vero, un litro è fatto così, un decimetro cubo è fatto cosà, ma guarda te.

Poi, vuotato e asciugato il cubo, la signora maestra tirò fuori dei pezzetti di plastica più piccoli. “Vedete questo?”, continuò, “questo è un centimetro cubo, guardate com'è piccolo. Ora ne prendo un po' e li metto sul fondo del decimetro cubo, guardate, li accosto tutti a un lato. Quanti ce ne stanno?”.

“Dieci!”, rispondemmo. E guardammo i dieci cubetti tutti belli allineati sul fondo.

“Ora, guardate, questo pezzetto di plastica è grande come i dieci cubetti che abbiamo appena messo sul fondo”. Osservammo un listello di plastica trasparente lungo dieci centimetri, e avente sezione di un centimetro quadrato. “Lo appoggio sul fondo, vicino ai dieci cubetti di prima. Poi ne appoggio altri, fino a coprire tutto il fondo del decimetro cubo, vedete?”. Vedemmo. “Allora, contiamo: abbiamo messo dieci cubetti da un centimetro cubo, poi nove listelli, ognuno dei quali rappresenta dieci centimetri cubi. In tutto quanti centimetri cubi abbiamo messo?”. Ci mettemmo a fare i conti: cento! Cento? Così tanti? Eh, sì, non sembra, ma sono proprio cento. Che roba.

“Ora guardate, ragazzi, guardate quest'altro pezzo”. Ci mostrò una lastra quadrata di plastica, dieci per dieci centimetri, spessa un centimetro. “Vedete? Questa lastra occupa lo stesso spazio dei cento centimetri cubi che abbiamo appena messo dentro al decimetro cubo. Ora la inserisco, e poi ne metto ancora, fino a riempire tutto lo spazio. Ecco, guardate: ce ne stanno nove. Alla fine, quanti centimetri cubi abbiamo inserito dentro al decimetro cubo?” Dopo aver fatto i conti, rispondemmo: “mille!”.

Mille, che roba, mille è tantissimo. Eppure è così, li abbiamo visti, ci stanno mille cubetti da un centimetro cubo dentro a un decimetro cubo.

E, insomma, per farla breve, in quell'istante, che ho ancora ben chiaro nella memoria, mi sono reso conto di aver visualizzato un concetto matematico e di aver capito. E ancora oggi, quando qualche studente sbaglia le equivalenze, mi chiedo come sia possibile che sbagli, ma insomma, non ha mai visto com'è fatto un decimetro cubo? Non ne ha mai preso uno in mano? Probabilmente no.

Per amor di completezza, dirò che la signora maestra non cercava di farci fare esperienza soltanto dei concetti matematici: dopo aver parlato dell'apparato respiratorio, per esempio, un giorno ci portò in classe un polmone preso in macelleria e ce lo fece guardare per bene (con un po' di terrore da parte di molti di noi). Parliamo dell'apparato circolatorio? “Bene, ecco qua un cuore di bue, guardate com'è fatto, guardate i ventricoli, gli atri, vedete?”.

“Signora maestra, ma dov'è la pompa di cui ci ha parlato?”, domandò la Viviana.

“Ma è questa qua, è il cuore che fa da pompa contraendosi e espandendosi. Questo è un muscolo”. Parliamo dell'occhio, della visione? “Bene, ecco un occhio di bue, ora lo apriamo (bleah che schifo!), questo è l'umor acqueo, questo il cristallino, ora guardate l'umor vitreo che esce”. Voglio dire, io ho preso un cristallino in mano e l'ho guardato.

Parliamo di fisica, studiamo che l'aria calda è più leggera e l'aria fredda più pesante? “Bene, vieni tu che hai le braghe corte e mettiti in piedi sulla cattedra, ora spalanco la porta, senti l'aria fredda dell'esterno? Sì? Dove la senti, in alto o in basso?”.

“In basso!”. Oh, era vero!

Ecco, quindi, cosa mi piace delle dimostrazioni senza parole: mi fanno fare esperienza dei concetti che sto studiando, me li mostrano con delle figure. Mi fanno vivere l'esperienza aha! di cui ha scritto anche Martin Gardner.

In fondo, però, a dirla tutta, non è mica vero che si possano fare dimostrazioni senza parole: un passaggio di informazioni tra chi scrive e chi legge ci deve sempre essere. Può essere sotto forma di parole, appunto, oppure di formule, oppure di immagini. Alla fine tutto dipende da cosa intendiamo per parola.

Cioè, per dire, anche questa è una dimostrazione senza parole, ma non è che sia così immediato questo benedetto passaggio di informazioni:

(la frase in fondo non fa parte della dimostrazione, ma — bontà degli autori — è semplicemente una nota per farci capire quello che sta succedendo. La sua dimostrazione si trova a pagina 86 del volume 2 dei Principia Mathematica, accompagnata dalla nota “The above proposition is occasionally useful. It is used at least three times, in ✸113.66 and ✸120.123.472”. Russell e Whitehead erano dei troll).

Ecco, io credo che le immagini aiutino tanto. Più di mille parole, diceva quello.

Quasi quasi alla conferenza proietto solo delle immagini e non dico una parola.