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giovedì 9 marzo 2017

La mia signora maestra

Qualche giorno fa una persona mi ha chiesto se fossi disponibile a parlare di un argomento scelto da me a un corso di aggiornamento per insegnanti. Invece di scappare in direzione opposta, urlando e agitando forsennatamente le mani in aria, ho detto: “mh, va bene”.

La domanda successiva è stata: “di quale argomento vuoi parlare?”. E io, sventurato, ho risposto dimostrazioni senza parole.

Una volta riacquistata una parvenza di sanità mentale, ho cercato di capire da dove mi fosse venuta questa fissa delle dimostrazioni senza parole; una formidabile capacità di autoanalisi mi ha fatto risalire molto nel passato, fino alle scuole elementari.

La mia signora maestra (si dice sempre signora, prima di maestra) si chiamava Lidia Botti, nata a Portovenere. La incontrai per la prima volta il primo giorno di scuola (ovviamente), nel cortile della mia scuola, dove lei era scesa per accogliere noi nuovi alunni, fare l'appello, e portarci tutti in classe. Un signore — che, più tardi, riconobbi come il preside della scuola — le si avvicinò e le chiese: “ma lei che qfwfq ha?” (pronunciò una parola che non riconobbi). Ripose: “mille voci”.

Uh, mamma mia, cominciai a pensare, ma com'è brava questa maestra, sa fare mille voci, che roba, io so fare solo la mia, chissà quante cose sa, chissà com'è brava, ma che bello, questa scuola è bellissima.

Solo un dopo un po' di tempo, di cui per amore di dignità non specificherò la durata, mi resi conto che la parola che non avevo ben compreso era sussidiario, e che Millevoci era semplicemente il suo titolo.

Ma torniamo alle dimostrazioni senza parole.

Un giorno la signora maestra venne in classe con uno strano oggetto: un cubo di plexiglass pieno di pezzi di forma diversa.

“Vedete, ragazzi”, cominciò a parlare, “abbiamo studiato le equivalenze, abbiamo parlato delle misure di volume, ecco, guardate, questo è un decimetro cubo”. E ci mostrò questo cubetto di plastica trasparente; poi lo appoggiò sulla cattedra, e tirò fuori una bottiglia di vetro graduata. “Guardate, ho riempito questa bottiglia di acqua, leggete qua, qual è la capacità di questa bottiglia?”.

“Un litro”, rispondemmo.

“Ecco, ora la verso dentro al decimetro cubo. Ricordate l'equivalenza? Ricordate che un decimetro cubo è uguale a un litro?”. Annuimmo. “Bene, ecco fatto, il litro d'acqua ha riempito tutto il decimetro cubo, visto?”. Eh, cavoli, ho pensato, ma allora è proprio vero, un litro è fatto così, un decimetro cubo è fatto cosà, ma guarda te.

Poi, vuotato e asciugato il cubo, la signora maestra tirò fuori dei pezzetti di plastica più piccoli. “Vedete questo?”, continuò, “questo è un centimetro cubo, guardate com'è piccolo. Ora ne prendo un po' e li metto sul fondo del decimetro cubo, guardate, li accosto tutti a un lato. Quanti ce ne stanno?”.

“Dieci!”, rispondemmo. E guardammo i dieci cubetti tutti belli allineati sul fondo.

“Ora, guardate, questo pezzetto di plastica è grande come i dieci cubetti che abbiamo appena messo sul fondo”. Osservammo un listello di plastica trasparente lungo dieci centimetri, e avente sezione di un centimetro quadrato. “Lo appoggio sul fondo, vicino ai dieci cubetti di prima. Poi ne appoggio altri, fino a coprire tutto il fondo del decimetro cubo, vedete?”. Vedemmo. “Allora, contiamo: abbiamo messo dieci cubetti da un centimetro cubo, poi nove listelli, ognuno dei quali rappresenta dieci centimetri cubi. In tutto quanti centimetri cubi abbiamo messo?”. Ci mettemmo a fare i conti: cento! Cento? Così tanti? Eh, sì, non sembra, ma sono proprio cento. Che roba.

“Ora guardate, ragazzi, guardate quest'altro pezzo”. Ci mostrò una lastra quadrata di plastica, dieci per dieci centimetri, spessa un centimetro. “Vedete? Questa lastra occupa lo stesso spazio dei cento centimetri cubi che abbiamo appena messo dentro al decimetro cubo. Ora la inserisco, e poi ne metto ancora, fino a riempire tutto lo spazio. Ecco, guardate: ce ne stanno nove. Alla fine, quanti centimetri cubi abbiamo inserito dentro al decimetro cubo?” Dopo aver fatto i conti, rispondemmo: “mille!”.

Mille, che roba, mille è tantissimo. Eppure è così, li abbiamo visti, ci stanno mille cubetti da un centimetro cubo dentro a un decimetro cubo.

E, insomma, per farla breve, in quell'istante, che ho ancora ben chiaro nella memoria, mi sono reso conto di aver visualizzato un concetto matematico e di aver capito. E ancora oggi, quando qualche studente sbaglia le equivalenze, mi chiedo come sia possibile che sbagli, ma insomma, non ha mai visto com'è fatto un decimetro cubo? Non ne ha mai preso uno in mano? Probabilmente no.

Per amor di completezza, dirò che la signora maestra non cercava di farci fare esperienza soltanto dei concetti matematici: dopo aver parlato dell'apparato respiratorio, per esempio, un giorno ci portò in classe un polmone preso in macelleria e ce lo fece guardare per bene (con un po' di terrore da parte di molti di noi). Parliamo dell'apparato circolatorio? “Bene, ecco qua un cuore di bue, guardate com'è fatto, guardate i ventricoli, gli atri, vedete?”.

“Signora maestra, ma dov'è la pompa di cui ci ha parlato?”, domandò la Viviana.

“Ma è questa qua, è il cuore che fa da pompa contraendosi e espandendosi. Questo è un muscolo”. Parliamo dell'occhio, della visione? “Bene, ecco un occhio di bue, ora lo apriamo (bleah che schifo!), questo è l'umor acqueo, questo il cristallino, ora guardate l'umor vitreo che esce”. Voglio dire, io ho preso un cristallino in mano e l'ho guardato.

Parliamo di fisica, studiamo che l'aria calda è più leggera e l'aria fredda più pesante? “Bene, vieni tu che hai le braghe corte e mettiti in piedi sulla cattedra, ora spalanco la porta, senti l'aria fredda dell'esterno? Sì? Dove la senti, in alto o in basso?”.

“In basso!”. Oh, era vero!

Ecco, quindi, cosa mi piace delle dimostrazioni senza parole: mi fanno fare esperienza dei concetti che sto studiando, me li mostrano con delle figure. Mi fanno vivere l'esperienza aha! di cui ha scritto anche Martin Gardner.

In fondo, però, a dirla tutta, non è mica vero che si possano fare dimostrazioni senza parole: un passaggio di informazioni tra chi scrive e chi legge ci deve sempre essere. Può essere sotto forma di parole, appunto, oppure di formule, oppure di immagini. Alla fine tutto dipende da cosa intendiamo per parola.

Cioè, per dire, anche questa è una dimostrazione senza parole, ma non è che sia così immediato questo benedetto passaggio di informazioni:

(la frase in fondo non fa parte della dimostrazione, ma — bontà degli autori — è semplicemente una nota per farci capire quello che sta succedendo. La sua dimostrazione si trova a pagina 86 del volume 2 dei Principia Mathematica, accompagnata dalla nota “The above proposition is occasionally useful. It is used at least three times, in ✸113.66 and ✸120.123.472”. Russell e Whitehead erano dei troll).

Ecco, io credo che le immagini aiutino tanto. Più di mille parole, diceva quello.

Quasi quasi alla conferenza proietto solo delle immagini e non dico una parola.

giovedì 19 marzo 2015

La ricetta definitiva dei tortellini

Mia suocera non era come le suocere delle barzellette: mi voleva bene e mi faceva sentire come uno di famiglia. Una volta ogni due settimane ci invitava a casa sua per il pranzo della domenica, e la scena tipica era questa: annunciava di aver preparato una certa ricetta, alla quale però aveva apportato alcune modifiche, perché magari non aveva in casa il tal ingrediente e allora lo aveva sostituito con un altro, perché una volta il piatto non era venuto bene e allora aveva aggiunto, tolto, modificato qualcosa, sentite un po' se è buono, non sarà troppo insipido, secondo me adesso è meglio. Cose così.

In pratica quando una ricetta entrava nella sua cucina veniva provata, modificata, migliorata, a volte stravolta, con un procedimento di approssimazioni successive che portava verso la perfezione.

Si chiamava Giuseppina, ma in realtà tutti l'hanno sempre chiamata Pina (potrei sottolineare quel tutti narrando la leggenda su mia moglie che pare abbia conosciuto il nome vero di sua mamma solo molto tardi (per molto tardi intendo verso i sedici anni) (ma è solo una leggenda, appunto, quindi non lo farò)); comunque da quando ha iniziato ad avere nipoti era nota come la nonna Pina — come quella della canzone, esatto, ma la canzone è venuta dopo.

La nonna Pina ora non c'è più, se n'è andata improvvisamente due settimane fa. I suoi figli il giorno della festa del papà erano soliti festeggiare, assieme a suo marito, anche il suo onomastico.

E io, oggi, la ricordo così, con il suo capolavoro culinario frutto di sperimentazioni e esperienza: i tortellini. Non so se esista una ricetta ufficiale, un qualche documento depositato, un marchio dop, igp, stg, boh. Non mi interessa: i migliori tortellini li ho mangiati a casa sua, e questo basta.

Dunque, ecco la sua ricetta, così come è stata raccolta da un'amica che è stata a casa sua a lezione di tortellini.






Prodotto finito: 130 g a testa (adulti)

RIPIENO per 2 kg finiti:

600 g polpa di maiale (prosciutto) a pezzi, sbollentata e poi tritata con:
1 hg di mortadella
1 hg di prosciutto crudo
2.5 hg parmigiano reggiano grattugiato
2 uova
noce moscata e sale (se serve)

BRODO: mezza gallina + 8 hg di manzo. Bollire per 2 ore circa. Segreto: mettere anche un dado. (Questo non me l'aveva mai detto, sapeva che io e il dado non andiamo molto d'accordo)

NB: Se i tortellini avanzano dopo il pasto, separarli dal brodo. Poi, la volta seguente, riscaldare solo il brodo.




Breaking news: un recente ritrovamento (bigliettino giallo scritto a matita), di datazione più recente rispetto alla ricetta riportata sopra, riporta un rapporto carne/mortadella/prosciutto pari a 4/1/1 e non 6/1/1. Provate e guardate un po' cosa vi piace di più.



Per quanto riguarda il ripieno: la procedura di sbollentare la polpa e poi tritarla è stata sostituita dalla seguente. Si trita la polpa di maiale, la si cuoce in pentola, la si trita nuovamente assieme al prosciutto crudo e alla mortadella.

venerdì 5 luglio 2013

Sono una persona anzyana

C'è una cassettiera, piccolina, di quelle per componenti elettronici, coi cassettini verdi componibili, che possiedo da quando ero alle medie, e che ho usato sempre pochissimo. Mi ha sempre seguito nei traslochi, è sempre stata posizionata in un luogo nascosto ma noto.

In uno di quei cassetti ho conservato cose che potrebbero sempre servire, nel senso più ampio possibile del termine. Ovvero: bigliettini che mi ero fatto a scuola per aiutare la memoria durante le situazioni impreviste. Ne ho trovati tre che meritano di essere immessi nella memoria globale del pianeta.

Eccoli.



Questo era per il compito finale di quinta di letteratura latina, direi.


Questo, delle dimensioni di un francobollo, ha quel colorino marroncino-grigino perché è stato per un po' di tempo dentro al mio astuccio, in mezzo alle matite e alla grafite.



Si noti, in questo reperto, una frase in basso non scritta dal sottoscritto, frase che recita TUA DEL 4 S. R.


Questo è il retro del precedente. Si noti l'ottimizzazione dello spazio.

lunedì 24 giugno 2013

Sono un vecchiaccio rancoroso (ma ho ragione)

Nel mio mondo perfetto c'è un signore che, destatosi una mattina da sogni inquieti, scende dal letto, inciampa, batte la testa, si procura un bernoccolo colossale e, come succede a Paperino nella storia Paperino Chimico Pazzo, diventa intelligentissimo e inventa una sostanza chimica stupefacente, la furbite.

Con questa sostanza innovativa il signore fabbrica una bomba speciale, capace di distruggere solo un certo tipo di edificio: le discoteche. Le persone no, le lascia intatte. Non tutte, però: quelle che sono dentro alle discoteche diventano furbe. Non ho ancora deciso cosa dovrebbe succedere ai PR delle discoteche, poi ci penso. In un mondo perfetto non esistono, naturalmente, quindi qualcosa deve succedere. Possibilmente di brutto e doloroso, poi vediamo.

Per proteggere la sua vera identità, il signore decide di diventare un supereroe, e si fa chiamare Lo Scorno dei Matusa. Avvolto nel suo mantello da supereroe sale sul palazzo più alto della città e, non appena percepisce la tipica vibrazione nella Forza che è segnale dell'apertura degli immondi locali, fa risuonare il suo barbarico grido di battaglia (i dj non sono musicisti!) e accende la miccia delle sua bomba.

Poi il bernoccolo sparisce, il signore ritorna normale, non ricorda più quello che ha fatto, la gente però lo cerca, lo trova, gli racconta tutto, lui ha un po' paura, chissà cosa gli faranno, e invece niente, viene applaudito, viene portato in trionfo, viene festeggiato, viene fatto papa, re, imperatore dell'universo, santo, allenatore della nazionale, generale dei carabinieri, ministro della pubblica istruzione. E anche dei beni culturali, via.

Poi viene a cercarmi e mi dice, senti un po', non è che avresti voglia di andare a spargere del sale sulla terra dove erano costruite le discoteche? Così, per stare nel sicuro. Guarda, mi fa, lì ci sono i camion coi rimorchi pieni di sale.

Io ci penso un po', ma mica tanto, perché a me i camion piacciono molto, e gli rispondo ok, per stare nel sicuro, meglio fare due giri.

martedì 28 maggio 2013

Autore:

Nel lontano febbraio 2002 Piotr, imbucato invitato alla festa di compleanno di Douglas Hofstadter in quel di Bologna, si domandava come mai la prima parola del suo (di Hofstadter) libro più famoso fosse Author:, in italiano Autore:.

Nel lontano marzo 2002 il sottoscritto, leggendo il resoconto di Rudy, verificò sulla propria copia del suddetto libro che, effettivamente, la prima parola dopo indice, sommario, elenchi vari, fosse proprio Autore:. Era vero.

Oggi Doug Hofstadter ha tenuto, ancora una volta a Bologna, una conferenza dal titolo L'onnipresenza dell'analogia in matematica, e io sono stato ad ascoltarlo.

Ha parlato di come ragionano i matematici, di cosa trovano interessante e di cosa, invece, trovano noioso. Ha parlato della ricerca dei pattern, di come viene generalizzata una regolarità, di ricerche che lui ha compiuto quando aveva 17-19 anni, descrivendo quel periodo come “un'esperienza ricca e gioiosa”.

Ha spiegato la genesi della funzione INT(x), descritta nelle pagine di Gödel, Escher, Bach; ha raccontato dei suoi studi di matematica e di fisica. Ascoltarlo è stato un piacere.

Bene, alla fine della conferenza si è messo a disposizione del pubblico: c'era chi gli faceva qualche domanda, chi gli portava un libro da autografare. Mi sono messo in coda anche io, e quando sono stato là davanti gli ho chiesto se, mentre firmava, potevo fargli una domanda. Lui ha risposto “ma certo”, e io gli ho domandato: “come mai la prima parola del libro è proprio Autore:?”.

Adesso so.











Lo dico, dai.

Ha aperto il libro all'ultima pagina e mi ha detto, vedi, qua nel finale c'è l'Autore che parla, nel dialogo. E proprio alla fine la Tartaruga dice Riattacca Introduzione Come Esaurirai RICERCARE; Canone Ascendente Riprodurrai Eternamente. E quindi il libro non termina lì, ma ricomincia dall'inizio, dall'introduzione, con l'Autore che parla, e racconta di come ha intrecciato insieme i tre personaggi che fanno parte del titolo del libro.

Il libro, dunque, non finisce mai, ma richiama sempre sé stesso, creando un meraviglioso strano anello.

sabato 2 marzo 2013

Intrecci

È dal, uhm, 1990, più o meno, che non vado a una gita viaggio di istruzione di più giorni con la scuola. Da quando quello studente, per consolare la compagna dell'altra classe, ha passato la notte nella sua camera a, appunto, consolarla. Poi è stato così signore da raccontarlo a tutti, il giorno dopo.

Domani si va in montagna, due giorni, a sciare, con poco meno di cinquanta studenti di tutte le classi. Gli altri stanno a scuola a fare autogestione assemblea di istituto. Staremo in un albergo vicino alle piste da sci, sugli Appennini, lontano dalla civiltà  Di notte ci saranno solo il freddo, la neve e i lupi: confido nel fatto che tutti saranno abbastanza stanchi da voler dormire almeno un pochino.

Nel prepararmi alla partenza mi viene in mente di quando, in prima media, andai in settimana bianca con la scuola. Settimana bianca non è un modo di dire: siamo stati via una settimana intera, con tutta la scuola, e tutti i professori. Ora, i miei ricordi si sono magari un pochino sbiaditi, la prima media l'ho fatta un po' di tempo fa, in effetti, però ricordo bene che la scuola venne chiusa, e che con noi c'erano tantissimi professori. C'era la prof di tedesco, che forse ha provato a farci un pochino di ripasso una sera, non la prima sera però, perché era domenica, c'era il Gran Premio di Formula 1, la prima gara della stagione, e c'erano delle auto di una marca nuova che facevano dei tempi incredibili, erano delle Ligier.

C'era il prof di musica, il maestro Pippo Casarini, che ogni tanto cito nei social network per anziani che frequento, perché è stato quello che ha scritto la musica della canzone Quarantaquattro Gatti, e una sera ce l'ha suonata e cantata, e poi ce ne ha fatta ascoltare un'altra, che aveva proposto allo Zecchino d'Oro, ma che non venne accettata. Si intitolava Il Pappagallo Balbuziente (o forse Il Pappagallo Giramondo, guarda cos'ho trovato), e raccontava appunto di un pappagallo che non parlava mica tanto bene, e nessuno capiva cosa dicesse, e poi alla fine si scopre che voleva dire “A sùn d'Mòdna”, cioè “sono di Modena”, in dialetto modenese. Quelli dello Zecchino d'Oro non l'hanno accettata perché c'era una frase in dialetto, e a loro non piaceva, vabbé.

Poi c'era la Viola. Per spiegare chi fosse la Viola, devo specificare che io, alle medie, andavo in una scuola che non aveva classi miste. C'erano le femmine, sì, ma stavano in altre classi, in posti lontani: altri corridoi o, addirittura, altri piani. La Viola era una famosa nella mia classe, non perché noi primini conoscessimo il concetto preciso di sesso opposto, ma perché ne parlavano i bocciati. I bocciati, in prima media, sono un gradino al di sotto di Dio, quindi son gente da ascoltare con le orecchie ben aperte. E ne parlavano perché, insomma, loro frequentavano con attenzione gli altri corridoi e gli altri piani, e compivano dettagliate analisi statistiche, e avevano notato che la Viola era una fanciulla notevolmente, come dire, sviluppata, ecco. E una volta che uno ti fa notare questo particolare, poi fai fatica a distogliere lo sguardo. O i pensieri.

E così, domani partiamo in cinquanta, ma allora eravamo ben di più, mi sa. E ancora mi chiedo come abbiano fatto i professori e il preside (o la preside? non ricordo proprio se fosse maschio o femmina, strano, perché la Viola me la ricordo bene, non era mica un maschio, no, decisamente no) a portarci tutti in montagna, a sciare, senza tanto controllo, sia di giorno che di notte, per una settimana intera. Noi stiamo via solo una notte, speriamo che non ci siano troppe fanciulle da consolare.

Facciamo così, il tasto “pubblica” lo clicco quando torno. Così, per scaramanzia.

(Ciao, Viola, chissà che fine hai fatto)



Sono tornato. Siamo tornati tutti, anche se uno in eliambulanza. Ma sta abbastanza bene. Tutto sommato, è andata bene.

E proprio mentre pensavo “è andata bene, via, posso pubblicare”, mi è arrivata la notizia della morte della moglie di un collega. Uno di quegli eventi improvvisi e inaspettati che ti sconvolgono la vita, e ti fanno pensare. E l'unica idea che posso accettare è che tutta la roba che abbiamo intorno sia davvero un enorme spreco di spazio, se non servisse a niente. E senza tante prove ontologiche, dimostrazioni logiche, analisi teologiche, vorrei poter consolare il collega, l'amico, dicendogli: “la rivedrai”.

Avevo quasi deciso di cancellare tutto, poi ho pensato che ciò che ho scritto non è del tutto fuori luogo, nonostante tutto. Si tratta solo di un breve segmento della linea di universo della mia vita, che si intreccia con tante altre linee, crea relazioni, interagisce col mondo e lo costruisce. Siamo tutti sub-creatori, siamo tutti poco meno degli angeli, ci rivedremo tutti.

giovedì 24 gennaio 2013

lunedì 17 dicembre 2012

Ma perché proprio le frequenze? — come funzionano gli mp3

La domanda era: abbiamo davvero bisogno di tutte quelle frequenze? Cioè, ok, un suono bello, ricco, piacevole da ascoltare, è composto da tante onde “pure”, ognuna delle quali dà un piccolo contributo al risultato finale. Ma davvero il nostro orecchio riesce a percepirle tutte?

Qui si entra nel mondo della psicoacustica, che sarebbe (scopiazzando la definizione da wikipedia) lo studio della psicologia della percezione acustica. Insomma: cosa è per noi la musica? Cosa sentiamo davvero? I suoni esistono solo se li ascoltiamo? Se un albero cade in una foresta e nessuno assiste alla scena, la vecchina del piano di sotto verrà ugualmente a brontolare perché non si possono spostare i mobili a mezzanotte?

Bene, la filosofia della compressione mp3 (e di tutta la categoria di algoritmi di compressione detti a perdita di informazione) è questa: se una cosa non si sente, non esiste. Se quella frequenza non è percepibile dall'orecchio, allora la sua presenza è inutile: buttiamola via. Se devo registrare lo sparo di un cannone, è inutile che memorizzi anche il suono della mosca che volava lì vicino.

A grandi linee (molto grandi), un codificatore mp3 fa questo: prende in ingresso l'onda, la trasforma nell'elenco delle frequenze componenti, butta via le frequenze inutili, e produce un file decisamente più piccolo rispetto all'originale.

Anche se il file risultante è diverso dall'originale, l'orecchio umano non se ne accorge. O, almeno, non dovrebbe. Certamente non se ne accorgono i giovani d'oggi che ascoltano la musica in coppia, dividendosi le cuffie da buoni amici, un auricolare per uno (signora mia, dove andremo a finire? Nemmeno conoscono il concetto di stereofonia). Più difficile è affermare che nessuno se ne accorge: personalmente ho fatto una prova con un amico che possiede un impianto audio che costa di più della mia automobile, gli ho dato un cd contenente alcuni brani registrati sia in formato originale, sia passati attraverso la codifica/decodifica mp3, e lui ha saputo distinguerli.

Ecco, comunque, una prova oggettiva: ho preso il file contenente il la a 220 Hz suonato da una chitarra, file che avevo già usato nel post precedente, e l'ho compresso in formato mp3. Poi ho disegnato lo spettro. Eccoli qua, quello originale e quello dopo la compressione:




Si vede bene che nella parte sinistra sembrano uguali, ma poi nella parte destra cambiano notevolmente. Il file mp3, ad esempio, non contiene informazioni per le frequenze superiori ai 16000 Hz (tanto chi le sente?).

Credo che ci sia una morale, in questa faccenda dell'evoluzione del modo in cui viene memorizzata la musica.  Da ragazzini, i miei amici ed io sapevamo cosa fosse una puntina di un giradischi, qualcuno sapeva anche distinguere tra magnete mobile e bobina mobile, andavamo nei negozi ad ammirare oggetti per noi proibiti, robe con nomi esotici come amplificatori valvolari in classe A, bracci tangenziali, diffusori elettrostatici, preamplificatori phono. E, quando ascoltavamo della musica, al massimo ogni venti minuti dovevamo alzarci per girare il disco.

Cercavamo la migliore fedeltà possibile e, adesso che abbiamo una tecnologia che ci permetterebbe di portarci una sala da concerto in casa, ci accontentiamo di poche frequenze trasmesse da un auricolare in un orecchio (bah, forse la morale è che sto invecchiando).

Se una farfalla batte le ali a Pechino, a New York nessuno la sente.

sabato 1 dicembre 2012

Enigma

Ci sono tre storie che convergono qui.

La prima è quella che racconta di me bambino, accompagnato da mio papà al cinema a vedere Biancaneve, nella versione in cartoni animati di Walt Disney. Mi racconta il babbo che io passai metà del tempo con gli occhi chiusi, terrorizzato dalla strega cattiva. I miei ricordi non sono molto precisi (avrò avuto sei anni, più o meno), tranne che in un punto: la scena in cui QUELLA MALEDETTA STREGA ORRIPILANTE SCENDE NELLE PRIGIONI DEL CASTELLO, ehm, io l'ho vissuta con gli occhi chiusi da entrambe le mani e al di sotto della linea dei sedili davanti a me, per stare nel sicuro. Ancora oggi, mi sento inquieto al pensiero di quella vecchiaccia col naso bitorzoluto.

La seconda storia è quella che vede ancora me stesso, molto più grande, acquistare e leggere un libro (di cui magari parlerò in un altro momento) su spionaggio e codici cifrati, presentati sia dal punto di vista tecnico che da quello storico. È stato grazie a quella lettura che ho imparato l'importanza che hanno avuto i matematici durante la guerra.

La terza storia è quella raccontata in Enigma, la strana vita di Alan Turing (di Tuono Pettinato e Francesca Riccioni, Rizzoli Lizard, 13.60€ in formato fisico e 11.99€ in formato Kindle)

More about Enigma


È una storia a fumetti che racconta di Alan Turing, della sua vita, delle sue scoperte, del suo genio e della sua triste fine. La biografia è molto dettagliata, ma non è un testo matematico (non temete): vengono citate alcune pietre miliari della storia della matematica, come il paradosso di Russell, il programma di Hilbert, il teorema di Gödel, la macchina di Turing e l'omonimo test. Viene poi descritta l'attività di Bletchley Park, e vengono citate le macchine Enigma e Colossus.

Lo scopo di questo libro non è quello di dimostrare teoremi o di parlare di matematica, no. Lo scopo è quello di raccontare una storia, e di invogliare il lettore ad approfondire.

E direi che ci sia riuscito benissimo, se non fosse per quella brutta ossessione di Turing per la storia di Biancaneve. Se, come lui e come il bimbetto della prima storia, siete rimasti ossessionati da Grimilde, non andate a pagina 52 se siete soli in casa.






giovedì 22 novembre 2012

mercoledì 28 dicembre 2011

Crivelli — 2: astrazioni

«Complicazioni che ci porteranno a scorgere una piccola parte di ciò che genera le ombre che di solito osserviamo? Cosa dici?».

«Forse ho esagerato un po'».

«Direi. Ma a cosa ti riferivi?».

«Mi è venuta in mente una sensazione che ho provato, a volte, quando facevo l'università».

«Cioè?».

«C'era questo libro di geometria, tutto scritto a mano».

«In che senso, a mano?».

«Proprio nel senso che era scritto a mano, in corsivo, in bella calligrafia».

«Ma dai!».

«Davvero. Un'opera d'arte… Era un bel libro, ben organizzato, nei primi capitoli c'erano tutte le basi per poi poter affrontare il resto, non avevi bisogno d'altro. Solo che era incomprensibile».

«Andiamo bene».

«Non nel senso che fosse scritto male, eh. Era proprio la geometria ad essere incomprensibile».

«Figure astruse che dovevi studiarti per ore, prima di capire come fossero fatte?».

«Neanche una figura».

«Eh? Ma come? Un libro di geometria, hai detto?».

«Sì».

«Senza figure».

«Eh».

«Mi sembra di essere in un altro mondo. La geometria non dovrebbe essere fatta con le figure? E allora?».

«Capisci cosa intendo quando dico che era incomprensibile? Non mi aspettavo che fosse così, geometria. E, da quanto sento, questo è l'impatto che la materia ha con tutti gli studenti».

«Quindi quella dei Veri Geometri è una categoria di gente ancora più fuori di testa dei Veri Matematici Generici».

«Questo è quello che pensano in molti, sì».

«Andiamo bene. E allora, cos'è successo con quel libro?».

«È successo che ho dovuto studiarlo, naturalmente. E, per capirlo, dovevo sempre ricollegare le cose astrattissime di cui parlava a ciò che già conoscevo, grazie ai miei studi precedenti».

«Immagino che non fosse una cosa semplice».

«Neanche un po'. Ogni tanto arrivava l'illuminazione, riuscivi a collegare tutto, e ti sembrava di aver raggiunto un livello di consapevolezza che prima non avevi».

«Ma, per esempio?».

«Per esempio, all'inizio della geometria si fa della gran algebra lineare».

«Mi pare ovvio, si chiama geometria, studi dell'algebra. Non fa una piega. Del resto, c'è la parola lineare che mi fa capire che è geometria».

«Eh, non ti sbagli di molto… Comunque, algebra lineare significa matrici. E le matrici hanno delle strane operazioni. E mentre me le studiavo, e cercavo di capire perché dovessero essere fatte proprio in quel modo, a un certo punto mi sono detto: "ma se prendo una matrice formata da una riga e una colonna, ho un numero! Allora tutti i numeri sono matrici! Il mondo è fatto di matrici, e i numeri sono solo casi particolari! Tutto quello che ho studiato era un caso particolare del caso generale. Ora vedo! Ora so! È bellissimo!"».

«Poi sono arrivati, sì?».

«Chi?».

«I medici».

«No, parlavo tra me e me, non mi sono messo a urlare per strada».

«Hai fatto bene».

«Per farti un esempio meno stupido, ricordi quando abbiamo parlato di trasformazioni del piano e di coordinate omogenee?».

«Certo, quella era geometria, c'erano le figure, mi ricordo. Avevo anche capito, le coordinate omogenee erano quelle che mi permettevano di parlare di punti impropri, cioè punti all'infinito».

«Bene. Ora ti faccio vedere la versione dei Veri Geometri».



«Non si capisce niente».

«Esatto. Quella è una pagina del famigerato capitolo IX, dal titolo Relazioni fra le strutture vettoriali, affini e proiettive. Diciannove pagine infernali».

«E tu le hai capite».

«A suo tempo, sì. E quando riuscivo a collegare quella roba con le mie conoscenze, mi sembrava di capire davvero. Mi dicevo: ma allora le cose stanno così. Mi sentivo un eletto che poteva dare un'occhiata alle cose, e non alle loro ombre. Mi sembrava di vedere con gli occhi di Dio».

«Ehm».

«Eh».

«Poi sei guarito?».

«Poi sono diventato insegnante: in un certo senso sono guarito. Perché è bellissimo partire dalle basi e arrivare a un tale livello di astrazione per cui tutto è inserito in un unico concetto, ma poi bisogna anche ridiscendere a valle e fare comprendere le cose, spiegarle, fare qualche maledetto disegno, santo cielo».

«Eh eh».

«Voglio dire, ammiro le menti degli autori di quel libro (uno dei quali era anche il mio insegnante di geometria), ma le loro capacità didattiche non è che fossero quella gran cosa».

«No, eh?».

«No, decisamente. Per esempio lui, dico il prof di geometria, non usava mai il cancellino, scriveva dove trovava posto».

«Benissimo. Del resto, uno che insegna geometria non deve mai usare la lavagna per fare i disegni».

«Infatti. Una volta, prima delle vacanze di Natale, qualcuno disegnò un albero di Natale alla lavagna. Lui cominciò a scrivere le formule sulla lavagna, e in quella lezione ne doveva scrivere molte».

«E non ha cancellato?».

«Assolutamente no, ha cominciato a scrivere dentro all'albero».

«Incredibile».

«E non è finita qua. Quella volta le formule erano così tante che, alla fine, ha dovuto prendere in mano il cancellino».

«Colpo di scena».

«Da tutta l'aula si è alzato un mormorio».

«Eh eh».

«Poi ha appoggiato il cancellino alla lavagna, in un punto centrale, e l'ha mosso per un venti-venticinque centimetri».

«Quanto bastava per l'ultima formula».

«Già. Ma non ha fatto come fanno le persone normali, che appoggiano il cancellino e poi lo muovono un po', in modo da tirare via il gesso. No, lui ha semplicemente appoggiato e spostato, poi l'ha messo via».

«E che risultato ha ottenuto?».

«Ha creato un bel rettangolo bianco e polveroso sulla lavagna. Poi ci ha scritto sopra l'ultima formula, perfettamente mimetizzata tra il gesso. Formula bianca su sfondo bianco, suprematismo matematico».

«Tutto ciò ha dell'incredibile, se uno non pensa che si sta parlando di Veri Matematici».

«Già».

«Ma riguardo al crivello di Eratostene? Cosa c'entra questo discorso con quanto abbiamo detto finora?».

«Per migliorare il crivello, dobbiamo prima astrarre, complicare le cose, e poi cambiarle. Non sarà facile».

giovedì 25 agosto 2011

Non puoi dire di aver vissuto se non hai mai calcolato un logaritmo con carta e penna

Per prima cosa si calcolano le radici quadrate successive di 10, fino a che non ci si stanca:








E si arriva così a compilare l'importantissima tabella delle radici di 10:


Poi si prende il numero di cui vogliamo calcolare il logaritmo, per esempio 42. Lo si divide per una potenza di 10 opportuna, in modo che il risultato sia un numero compreso minore di 10. Nel nostro caso si ottiene 4.2, e si comincia una serie di divisioni successive per la potenza di 10 appena minore del valore che stiamo utilizzando.







In pratica, questo è quello che abbiamo fatto:


(Quel valore 1.005 finale lo teniamo per dopo)
Abbiamo quindi ottenuto una prima approssimazione per il logaritmo di 4.2:


E ci calcoliamo anche il risultato della frazione:


Ora si tratta di stimare in qualche modo quell'1.005 che abbiamo lasciato indietro. Per prima cosa allarghiamo la tabella delle potenze di 10


Dalla quale scopriamo che (10x-1)/x si comporta con una certa regolarità: le differenze dei valori successivi si dimezzano sempre. Stimiamo quindi l'errore che abbiamo commesso fermandoci a 1/256. Naturalmente anche i calcoli per le due nuove colonne della tabella sono stati fatti a mano:


Dalla tabella abbiamo scoperto che vale la seguente approssimazione, per le potenze di 10 piccole:


(Anche la divisione indicata è fatta come si deve:)


Abbiamo trovato quindi una stima dell'errore che abbiamo commesso lasciando fuori quel famoso 1.005, di cui ora possiamo tenere conto:

E quindi ecco il calcolo corretto:


Ora, per trovare il logaritmo di 42, basta aggiungere uno:


Ed ecco fatto.

Tutti i calcoli sono stati eseguiti rigorosamente a mano, e subito dopo sono stati controllati con la calcolatrice. In media c'era un errore per ogni passaggio, ehm. Tempo impiegato: un pomeriggio.

Briggs, senza il controllo a posteriori, faceva invece delle tabelle del genere:




venerdì 21 gennaio 2011

Assistenza remota

Sono stato a una conferenza di Massimo Ferri, intitolata Ma i robot sanno la matematica?

Massimo Ferri è quel signore qua; chi bazzicava Fidonet negli anni '90 se lo ricorda come Max Ferri: un insegnante universitario di matematica al quale si fa risalire l'invenzione del termine vampiration.

Bene, nella sua conferenza ha parlato di vari argomenti legati alla robotica, ha raccontato quanta e quale matematica sia necessaria per permettere a un robot di muoversi, di riconoscere ostacoli, persone, di stare in equilibrio, di trovare strade; insomma, di fare quello che di solito i robot fanno (almeno nella nostra immaginazione).

Non posso non raccontare il fatto che nei primi tre minuti è riuscito a citare Deep Thought e Douglas Adams, ma vorrei soffermarmi su una piccola parte della sua presentazione, quella relativa alle sonde Voyager.

Fino al loro arrivo dalle parti di Saturno le sonde spedivano a terra immagini in formato bitmap non compresso (800×800, 8 pixel di profondità, cioè 256 livelli di grigio): il problema per le Voyager non era quello di scattare foto, ma di avere tempo per spedirle a terra. Man mano che la distanza aumenta, infatti, l'efficienza della trasmissione dei dati decresce.

Allora i tecnici a terra hanno pensato di fare un upgrade software, realizzando così il più grande intervento di assistenza remota nella storia dell'informatica (almeno considerando la distanza tra tecnici e computer da sistemare): i programmatori hanno spedito un aggiornamento al programma di trasmissione immagini, aggiornamento che è stato caricato su un computer di bordo di riserva per la gestione del sottosistema dei dati di volo e che consisteva nel fare trasmettere alla sonda non tutta l'immagine completa, ma soltanto le differenze di livello di grigio tra un pixel e i pixel adiacenti. Insomma, invece di trasmettere 8 bit per pixel, ne venivano trasmessi molti meno, dato che le foto spaziali hanno spesso molti pixel simili tra loro (e perlopiù neri). In questo modo le immagini venivano ridotte del 60 per cento circa, e noi abbiamo avuto la possibilità di vederne di più.

Una delle ultime immagini che abbiamo ricevuto è quella intitolata Pale Blue Dot, in cui la terra è un piccolo, pallido puntino blu.

La storia di questa fotografia è raccontata su wikipedia, e potete andarla a leggere là. Io qui mi limito a citare una frase di Carl Sagan, che mi pare possa costituire una degna conclusione di questo post:

Che vi piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l'astronomia è un'esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c'è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l'uno dell'altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l'unica casa che abbiamo mai conosciuto.

giovedì 28 ottobre 2010

Sogni

C'è una frase alla quale ogni tanto penso quando ho bisogno di camminare con piede più leggero in questa valle di lacrime (ehm), una frase pronunciata da uno dei miei figli quando aveva quattro anni, che mi dà una sensazione di pace e di serenità di cui, a volte, ho bisogno, come ad esempio quando la cifra delle unità dei miei anni fa uno scatto in avanti e diventa uguale a quella delle decine. Bè, per non farla troppo lunga, la frase è questa:

Babbo, ma quando noi facciamo i sogni rimaniamo a casa?

venerdì 22 ottobre 2010

zz2+c

Per commemorare Benoit Mandelbrot, morto il 14 ottobre 2010, Scientific American ha ripubblicato un articolo pubblicato in origine nell'agosto del 1985 intitolato Computer Recreations: A computer microscope zooms in for a look at the most complex object in mathematics. Scritto dal buon Dewdney.

Si può scaricare il pdf direttamente da qui.

Cosa sia l'insieme di Mandelbrot lo sapete tutti, ma quell'articolo parla anche di una variante molto carina: prendiamo un numero intero compreso tra 0 e 99, eleviamolo al quadrato e teniamo solo le ultime due cifre del risultato. Poi ripetiamo il calcolo.

Bene, è chiaro che dopo (al massimo) 100 iterazioni dobbiamo avere una ripetizione, entrando in un ciclo. Quanti cicli ci sono? Che struttura hanno? Esistono degli attrattori? Avete provato a disegnare in un qualche modo i cicli? Avete notato delle simmetrie? Avete voglia (chiede Dewdney) di esplorare altri insiemi finiti (come, per esempio, gli interi da 0 a 999, elevandoli al quadrato ed estraendo le ultime tre cifre)?

Non bisogna dimenticare che l'articolo è stato scritto nel 1985, quando i personal computer non erano diffusi come lo sono oggi (ma la gente che li aveva sapeva programmarli). Dewdney suggerisce anche un algoritmo, avente lo scopo di ricercare eventuali cicli, che occupa solo due locazioni di memoria; così può essere eseguito anche dalle più semplici calcolatrici programmabili.

Altro che gigahertz e gigabyte.

lunedì 26 luglio 2010

Chiii?

Ho studiato al liceo scientifico, in una classe in cui la lingua straniera era il tedesco.

Dalla prima alla quarta abbiamo avuto sempre la stessa insegnante, che poi è andata in pensione. In quinta, con lo spettro dell'esame, abbiamo tutti atteso con molto timore la nuova insegnante. Dopo le prime lezioni eravamo tutti entusiasti: era brava, ci sapeva fare, era giovane, ci portava in laboratorio linguistico (dove non eravamo mai stati nei precedenti quattro anni), ci faceva lavorare tanto, faceva battute (soprattutto quando interrogava quelli che stavano dort drüben, cioè in fondo, nell'ultima fila, noto luogo popolato da gente sospetta).

Però era incinta, e a dicembre rimase a casa.

A gennaio arrivò la supplente, quella che ci avrebbe preparati per l'esame. Una delusione: era bruttina (e questo, purtroppo, non aiuta quando si va in una classe di diciottenni allupati), aveva una voce sgradevole, urlava sempre, non si faceva rispettare, e spiegava maluccio. Il fatto è che tedesco era comunque una materia d'esame, e noi ci trovavamo in bilico tra il desiderio di non fare niente e il terrore di dover portare lingua straniera all'esame. All'epoca, infatti, la parte orale dell'esame funzionava in questo modo: il ministero decideva quattro materie, il candidato ne sceglieva una, la commissione gliene assegnava una delle altre tre. In pratica si dovevano portare due materie: una scelta a piacere e l'altra assegnata dall'alto. Quindi in teoria si dovevano studiare tutte e quattro, perché l'assegnazione della seconda materia veniva fatta il giorno prima dell'orale.

In pratica, però, non funzionava così: la commissione, al momento della scelta della seconda materia, doveva valutare l'andamento dello studente e scegliere quella nella quale la valutazione era migliore. Quasi sempre andava tutto bene, ma ogni tanto la seconda materia veniva cambiata (rispetto alle aspettative dello studente, che durante tutto l'anno aveva messo in atto strategie incredibili per riuscire ad avere una valutazione alta nella materia che avrebbe voluto come seconda).

In sostanza, nessuno voleva portare tedesco come seconda materia. E quindi nessuno aveva valutazioni alte, per non rischiare di vedersela affibbiare dalla commissione. Questo non giovava certamente alle lezioni della supplente.

La quale, una volta, in un momento in cui la confusione era davvero insopportabile e in cui qualcuno ridacchiava per un suo presunto errore, sbottò: “Ma insomma, basta, io sono una discepola del grande Claudio Magris!”.

La classe, a una sola voce, gridò: “Chiii?”. E in quel momento la prof capì che non ce l'avrebbe fatta.

E noi studenti ignoranti siamo andati avanti per anni, anche dopo aver sostenuto l'esame di maturità, a ripetere la scenetta del grande Claudio Magris.

Alla fine solo due portarono tedesco all'esame: uno che era bravissimo e praticamente se lo studiava per conto proprio, e un altro a cui, ahilui, venne cambiata la materia (ma, in effetti, in tedesco aveva una valutazione più alta che nelle altre materie e quindi andava bene così).

Tutto questo, comunque, era per dire che lo spettro di Claudio Magris ogni tanto mi tormenta. E non ci ho messo molto a decidere di vendicarmi, quando ne ho avuta l'occasione…

L'occasione è capitata qualche giorno fa, quando quelli di Gravità Zero hanno proposto il gioco dell'estate 2010, dal titolo Trova la bufala e vinci! Ogni settimana viene proposto un brano preso dalla stampa tradizionale, e compito del lettore è quello di trovare gli errori scientifici presenti nel brano e segnalarli.

Il brano della settimana scorsa era intitolato Claudio Magris e la forza di Coriolis, e io mi ci sono buttato a pesce (anche perché ero fresco dell'argomento, ne aveva parlato Keplero poco tempo fa).

Se volete sapere com'è andata, leggete qua.

venerdì 4 giugno 2010

Arnold

È morto Vladimir Igorevič Arnol'd, per gli amici Arnold. I non matematici probabilmente non l'hanno mai sentito nominare, ma era un matematico d'eccezione.

All'età di diciannove anni ha risolto il tredicesimo problema di Hilbert, a ventidue anni si è laureato e ha iniziato a lavorare presso l'università statale di Mosca, e da allora non ha mai smesso di fare il matematico.

Chi ha odiato l'esame di meccanica razionale, all'università, probabilmente non ha avuto la fortuna di avere un insegnante che seguiva il testo di Arnold: un testo stranissimo, con poche formule, tantissimi legami con la geometria, facile e difficile allo stesso tempo — il linguaggio molto chiaro e discorsivo lasciava spesso al lettore il compito di formalizzare e mettere in forma rigorosa alcuni passaggi. Io ho odiato l'insegnante, ho odiato il libro, ma quando è stata ora di prepararmi all'esame ho cambiato idea, e mi sono appassionato tanto che, come ultimo esame del corso di laurea, ho scelto meccanica superiore. Il programma di quell'esame si poteva riassumere in un solo, breve, titolo: il teorema KAM.

Eravamo in quattro o cinque a seguire il corso. Abbiamo passato circa sei-sette mesi di studio, di preparazione, di sviluppo della teoria necessaria per arrivare a capire il testo e la dimostrazione di un unico teorema, chiamato KAM dalle iniziali dei tre matematici che lo hanno scoperto inizialmente: Kolmogorov, Arnold e Moser. Bellissimo.

Il 10 settembre 1991 l'università di Bologna gli ha conferito la laurea honoris causa in matematica: io c'ero. Non ricordo assolutamente quale fosse l'argomento del suo discorso di ringraziamento, ma ricordo che fece cenno a una mappa caotica da lui scoperta: una funzione sul toro bidimensionale invertibile, che preserva l'area, con un insieme denso di punti periodici, ergodica, mixing, strutturalmente stabile, detta la mappa del gatto di Arnold. Sì, per spiegare il funzionamento di questo oggetto matematico Arnold metteva, nei suoi libri, il disegnino di un gatto (che veniva stirato, allungato, arrotolato su una ciambella, e strapazzato in tanti altri modi che non farebbero piacere agli amanti dei gatti).

sabato 27 marzo 2010

Bei tempi

I numeri nella forma 2p − 1, in cui p è primo, sono chiamati numeri di Mersenne dal nome di Martin Mersenne, un frate parigino del diciassettesimo secolo che fu il primo a far notare il fatto che molti numeri di questo tipo sono primi.

Ora esiste un sito internet che raccoglie tutti i numeri primi di Mersenne conosciuti e che, mediante il calcolo distribuito, consente a chiunque sia in possesso di un computer di continuare nell’analisi di questo tipo di numeri.

Per circa 200 anni si sospettò che il numero di Mersenne 267 −1 fosse primo. Un giorno dell’ottobre 1903, a una riunione a New York della American Mathematical Society, il professore Frank Nelson Cole della Columbia University si alzò per una comunicazione. Cole, che era sempre stato un uomo di poche parole, andò alla lavagna e senza dire una parola procedette a scrivere col gesso il calcolo aritmetico per elevare 2 alla sessantasettesima potenza. Poi accuratamente sottrasse 1. Senza una parola passò poi ad una parte pulita della lavagna e moltiplicò per esteso 193707721·761838257287.

I due calcoli coincidevano. Per la prima e sola volta che sia stata registrata, un uditorio della American Mathematical Society applaudì vigorosamente l’autore di una comunicazione. Cole riprese il suo posto senza aver pronunciato una parola. Nessuno gli pose domande.

Tempo dopo fu domandato a Cole quanto tempo ci avesse messo a scomporre il numero, ed egli rispose: “Le domeniche di tre anni”.

( Lo racconta Martin Gardner)
(Chissà cosa avrebbe detto Cole se avesse potuto accedere a siti come questo)

martedì 16 marzo 2010

Se

Mi chiedeva Massimo Morelli: ma allora il libro La congettura di Poincaré è bello o no?

Se avete già sentito parlare di topologia, se non riuscite a vedere la differenza tra una tazza con un manico e una ciambella, se, quando eravate bambini, siete rimasti un po' a meditare sul fatto che in Risiko non si può uscire dalla mappa in alto e rientrare in basso, mentre in Zargo's lords si può, allora vale la pena leggerlo. Se non sapete cosa sia Zargo's lords, bè, mi dispiace per voi.