giovedì 7 dicembre 2023

Inferno, canto XXII

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Cavalieri in marcia, in combattimento e in parata, e talvolta battere in ritirata. Ho visto soldati nella vostra terra, o Aretini, li ho visti fare scorrerie, tornei e giostre. Li ho visti guidati da squilli di tromba, rintocchi di campane, tamburi, segnali dai castelli, strumenti nostrani e stranieri. Ma non ho mai visto un cavaliere, o un fante, o una nave da combattimento muoversi al suono della tromba del culo di un diavolo”.

“Ma cos'è”.

“L'inizio del canto XXII, naturalmente”.

“Leggermente parafrasato”.

“Un pochino. Volevo anche allitterare con i raggi b che balenano nel buio ma sarebbe stato bislacco”.

“Benissimo”.

“Ora possiamo andare avanti”.

“Ecco”.

“Nel canto XXII Dante è scortato dai Malebranche lungo l'argine della quinta bolgia. I dannati, più in basso, sono sommersi nella pece, e ogni tanto si vede emergere qualche schiena,”.

Come i dalfini, quando fanno segno
a’ marinar con l’arco de la schiena,
che s’argomentin di campar lor legno,

“Cos'è che fanno i delfini?”.

“Secondo Dante, segnalano ai marinai di salvare la loro nave dalla tempesta”.

“Ah, ed è vero?”.

“Mah, qualche anno fa ho avuto l'occasione di fare un'uscita con i signori della Jonian Dolphin Conservation, che ci hanno spiegato che quando i delfini vengono in superficie non lo fanno sempre per giocare e divertirsi. A volte compaiono per vedere cosa sta succedendo e per distrarre l'eventuale pericolo dagli individui più deboli, che nuotano più in profondità.”.

“Ma quindi i giochi coi delfini che si vedono nei delfinari…”.

“Per loro i delfinari sarebbero da abolire”.

“Ah”.

“D'altra parte, ci sono documentari, tra cui quelli famosi della BBC, che mostrano come i delfini in qualche occasione abbiano davvero aiutato l'uomo”.

“Beh, magari quando sono liberi possono decidere di farlo oppure no”.

“Già. Questo mostra, comunque, come l'osservazione di un fenomeno sia indispensabile ma non sufficiente. In altre parole, non dobbiamo lasciarci fuorviare dai nostri pre-giudizi: così come quando vediamo un delfino non possiamo sapere se è lì per giocare o per difendere un cucciolo che si trova cento metri sotto di lui, allo stesso modo quando osserviamo un qualunque fenomeno, una qualunque raccolta di dati, non dobbiamo fare deduzioni che ci sembrano logiche ma che non è detto che lo siano. Come dicono gli statistici: correlation is not causation”.

“Certo che parlare di correlazione coi delfini…”.

“Si fa quel che si può con quel che si ha, Dante non ha mica scritto un trattato scientifico. Però ogni tanto mette lì qualche osservazione precisa e dettagliata che ti lascia spiazzato. Comunque basta parlare di delfini, ora parliamo di pece”.

“Preferivo i delfini”.

“Che farebbero molta fatica a nuotare nella pece”.

“Senza dubbio”.

“Perché la pece è un liquido ad alta viscosità”.

“Certo”.

“La viscosità misura l'attrito tra le molecole di un liquido, come se un liquido fosse composto da tanti strati sottili in moto uno rispetto all'altro. Ciò che misura la difficoltà che hanno gli strati di scorrere uno sull'altro è proprio la viscosità”.

“Ok”.

“Tu immergi la mano in una vasca di liquido e provi a mescolarlo: se fai poca fatica il liquido è poco viscoso, se fai molta fatica il liquido è molto viscoso. Si fa meno fatica a mescolare una vasca d'acqua che non una vasca di pece”.

“Naturalmente”.

“E poi c'è un'altra caratteristica di cui tenere conto: se cambia la velocità di mescolamento, cambia la viscosità?”.

“Beh, certo”.

“La domanda è un po' più sottile: certamente cambia la forza, se vuoi mescolare la vasca d'acqua più velocemente farai più fatica, ma c'è una costante di proporzionalità che lega forza e velocità di mescolamento? Oppure non c'è nemmeno quella?”.

“Ah boh. Mi verrebbe da dire che c'è, ma se lo chiedi in questo modo forse la risposta è un'altra”.

“Bene, niente preconcetti! La risposta, comunque, è dipende”.

“Capirai”.

“Ci sono liquidi che mostrano questa caratteristica, questa costante di proporzionalità. Si chiamano fluidi newtoniani, e l'acqua ne è un esempio”.

“Oh, bene”.

“Ma ci sono anche fluidi non newtoniani. Ci sono fluidi, per esempio, per i quali l'aumento della velocità di mescolamento fa aumentare la viscosità: si chiamano fluidi dilatanti, e l'esempio classico che si fa per mostrare la loro strana caratteristica è quello dell'amido di mais”.



“Wow”.

“E ci sono esempi di tutti i tipi. Per esempio, ci sono fluidi per i quali l'aumento della velocità di mescolamento fa diminuire la viscosità: questi vengono detti assotiglianti al taglio”.

“Un esempio?”.

“Il ketchup. Fai fatica a estrarlo dalla bottiglia, ma se la agiti un po' allora il liquido è meno viscoso ed esce meglio”.

“Accidenti, è vero”.

“E ci sono ancora altre caratteristiche: liquidi per i quali aumenta o diminuisce la viscosità in base al tempo di mescolamento, e non alla velocità. Sono detti reopessici i primi e tissotropici i secondi”.

“Quanta roba”.

“In geologia ci sono i reidi, che sono solidi che presentano caratteristiche di deformabilità tipiche dei liquidi. C'è gente che ha studiato la deformazione di due lastre di granito nel corso di vent'anni, pubblicando nel frattempo alcuni articoli scientifici”.

“Ah, come il vetro, che si deforma dopo molto tempo”.

“Purtroppo quella è una leggenda metropolitana, se ti riferisci alle deformazioni delle vetrate nelle chiese”.

“Davvero?”.

“Sì, il vetro non ha quella capacità di deformazione. Tieni presente che quelle vetrate erano poi circondate da strisce di piombo, che ha una viscosità molto minore di quella del vetro: se il vetro si fosse deformato così tanto come si vede nelle vetrate delle chiese, allora il piombo avrebbe avuto tutto il tempo di colare e fare una pozzanghera per terra. La deformazione nel vetro c'è, ma semplicemente perché è stato costruito così”.

“Ah. Che delusione”.

“Per non lasciarti nella delusione, c'è una bella storia sulla pece”.

“Che bella storia ci potrà mai essere sulla pece?”.

“Una storia che ha vinto un premio forse più prestigioso del premio Nobel. Beh, no, non esageriamo, non più prestigioso ma molto ambito”.

“E che premio è? E che storia è poi?”.

“Si tratta dell'esperimento della goccia di pece. La pece, a temperatura ambiente, non sembra proprio un liquido: è molto viscosa e praticamente non cola”.

“E quindi?”.

“E quindi c'è un esperimento in corso che ha lo scopo di osservare la pece che cola”.

“Sai che roba”.

Un esperimento avviato nel 1927”.

“Eh?”.

“Già. La pece è stata messa all'interno di un imbuto di vetro col fondo tappato, dopo tre anni è stato tolto il tappo, e la pece ha cominciato a colare formando una prima, grossa goccia, che si è staccata dopo… indovina un po'?”.

“Boh? Molte ore? Giorni?”.

“Otto anni”.

“No, dai”.

“Otto. E poi ne sono cadute altre, a distanze di tempo simili”.

“Chissà la festa che fanno quando se ne stacca una”.

“Molto spesso il momento del distacco è stato perso. All'inizio non c'era l'elettronica, e conservare otto anni di pellicola cinematografica non sembrava il caso. Nel 2000 la webcam che doveva filmare il distacco si è guastata poco prima della caduta dell'ottava goccia”.

“Argh”.

“La nona fu ripresa da molte telecamere, ma si appoggiò sulle altre, cadute negli anni precedenti, senza staccarsi. Venne deciso di cambiare il contenitore prima che la goccia si fondesse con quelle sottostanti, ma le vibrazioni la fecero staccare”.

“Ma santo cielo”.

“Insomma, aspettiamo la prossima. Ora c'è una webcam che trasmette su internet un primo piano dell'esperimento, speriamo che finalmente tutto funzioni. Comunque per questo esperimento è stato vinto nel 2005 il premio IgNobel”.

“Oh, bene. Anche se nessuno ha mai visto cadere una goccia di pece, alla fine”.

“Sono riusciti a fare anche quello, con un esperimento gemello iniziato nel 1944, che ha permesso di filmare la caduta nel 2013”.

“Sessantanove anni dopo!”.

“Eh, ci vuole della calma, con la pece funziona così”.

“Dillo ai poveri dannati”.

“Che oltretutto erano immersi nella pece bollente. E che, piuttosto di avere a che fare con i diavoli, preferiscono tuffarsi per non farsi prendere. E i diavoli cercano di raggiungerli, e litigano, e cadono pure loro nella pece”.

“Vabbè”.

“E a quel punto Dante e Virgilio scappano via, lasciando lor così 'mpacciati”.

sabato 11 novembre 2023

Inferno, canto XXI

“Eccoci alla quinta bolgia, dove scontano la loro pena i barattieri”.

“Chi sono?”.

“Sono persone che avevano cariche pubbliche e che hanno usato il loro potere per arricchirsi. Oggi diremmo che sarebbero puniti per il reato di concussione”.

“Ah, bella gente”.

“Esatto. E non piacevano nemmeno a Dante, che li ha descritti immersi nella pece bollente, sorvegliati dai diavoli chiamati Malebranche”.

“Ottimo”.

“Questi diavoli sono dei bei soggetti: interagiscono con Dante e Virgilio, raccontano bugie, hanno dei nomi che sono tutto un programma”.

“Bugie? Nomi?”.

“Nomi proprio di diavolo, senti qua: Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto, Graffiacane, Farfarello e Rubicante. E poi c'è il loro capo, Malacoda”.

“Ahh! E le bugie?”.

“Malacoda incarica dieci dei suoi compari di scortare i poeti al prossimo ponte di roccia che conduce all'altra bolgia, perché quello più vicino è crollato. Ed è vero che è crollato, quando Gesù è disceso agli inferi, prima della resurrezione, provocando un grande terremoto. Il fatto è che anche gli altri ponti sono crollati, ma Malacoda finge che siano ancora in piedi”.

“Benissimo”.

“Quindi alla fine del canto, dopo un po' di minacce da parte dei diavoli, si arriva a un accordo e le guide accompagnano i poeti, che non sanno che i ponti sono crollati (e non lo sa nemmeno il lettore, se non ha letto il seguito). I diavoli sono guidati da Barbariccia, e ognuno di loro si rivolge a lui stringendo la lingua tra i denti, come se questo fosse un segnale convenuto. E Barbariccia risponde al segnale”.

Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;

ed elli avea del cul fatto trombetta.

“Non vedevi l'ora di dirlo, vero?”.

“Già”.

“E quale aspetto scientifico-matematico troviamo in questo canto, a parte quello relativo ai processi digestivi?”.

“Nessun aspetto, ahimé”.

“Ahi, niente di niente?”.

“Se proprio vogliamo aggrapparci a qualcosa, ci sarebbe una terzina che fa riferimento al ponte crollato, nominando un arco a tutto sesto”.

Poi disse a noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto.

“Tutto qua?”.

“Sì: si potrebbe dire che sesto è l'antico nome del compasso, ma niente di più. E allora direi di prendere spunto dai Malebranche e parlare di bugie”.

“Matematiche?”.

“Matematiche”.

“Ma la matematica non è la quintessenza della verità?”.

“Se la usi bene, sì, quando riesci a dimostrare delle cose, ma se la usi male…”.

“E come fai a usarla male?”.

“Ecco un esempio: immagina di avere due costanti a e b che valgono entrambe 1”.

“E non puoi chiamarle entrambe a?”.

“Certo, ma stiamo facendo un po' di scena, siamo i Malebranche della Matematica”.

“Benissimo”.

“Sarai dunque d'accordo su questa uguaglianza: a2 = ab”.

“D'accordo, in fondo c'è scritto 1 = 1”.

“Ora sottraiamo da ambo i membri l'espressione b2”.

“Così otteniamo a2b2 = abb2”.

“Proprio così. Ora modifico un po' la scrittura delle due espressioni: (a + b)(ab) = b(ab). Sei d'accordo sul fatto che questo è solo un altro modo di scrivere la stessa uguaglianza di prima?”.

“Sono d'accordo, ma ci siamo complicati la vita”.

“E ora la semplifichiamo, dividendo a destra e a sinistra per il fattore comune (ab)”.

“Bene, se semplifichiamo arriviamo a a + b = b. E ora?”.

“E ora rimetti al posto di a e di b i loro valori: ricordi che entrambe le costanti valgono 1?”.

“Ricordo, quindi mi viene 1 + 1 = 1. Uhm”.

“Ecco fatto, abbiamo dimostrato che 1 + 1 fa 1, cioè che 2 è uguale a 1. E quindi poi anche 1 + 2 sarà uguale a 1 + 1 cioè 1, e così via. Non esistono infiniti numeri, ne esiste uno solo, il numero 1. Pitagora sarebbe contento, gli studenti ancora di più, che non dovranno studiare più nulla: tutto il mondo matematico è composto soltanto da 1, fine della matematica”.

“Ma come? Spiega un po' come funziona questo inganno?”.

ed elli avea del cul fatto trombetta”.

domenica 8 ottobre 2023

Inferno, canto XX

“Eccoci alla quarta bolgia di Malebolge, quella dove scontano la loro pena gli indovini. Che poi non scontano tecnicamente nulla, dato che la pena è eterna, tant'è che Dante chiama i dannati sommersi. Sono già sotto, e non torneranno più su”.

“Amen”.

“Ed ecco come se la passano questi poveracci”.

e vidi gente per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.

“Camminano e piangono in silenzio. Che tristezza”.

“E non basta: la pena specifica per queste anime è quella di camminare con la testa completamente girata all'indietro. Le lacrime, osserva Dante, scendono quindi lungo la schiena arrivando a quella che i nostri amici di madre lingua inglese chiamano, con una perifrasi, la scollatura dell'idraulico, e che il nostro poeta indica semplicemente come lo fesso”.

“Ma benissimo. E qual è la colpa di questi dannati?”.

“Sono nientemeno che indovini”.

“L'hai detto, quindi sono ciarlatani?”.

“Eh, mica tanto, alcuni sono ciarlatani, ma altri sono astrologi”.

“Quindi ciarlatani”.

“No, no, allora la dottrina cristiana ammetteva l'esistenza degli influssi delle stelle. Quindi questi erano indovini veri, che predicevano il futuro”.

“E perché sarebbe una colpa?”.

“Perché la visione del futuro è consentita solo a Dio, e nessun uomo può prendere il posto di Dio”.

“Mah”.

“C'è anche sotto la dottrina del libero arbitrio: come puoi essere libero se già conosci il futuro? Su queste idee Dante insisterà più avanti, ma l'insegnamento della chiesa è chiaro: l'uomo è dotato di libero arbitrio, lui sceglie di compiere il bene o il male, lui ne è responsabile. Come può essere libero di scegliere se già conosce il futuro?”.

“Ok”.

“E quindi oggi parliamo di viaggi nel tempo”.

“Oh”.

“Quale migliore occasione degli indovini per parlare dei viaggi nel tempo? O, almeno, nel futuro?  Quello che sappiamo oggi è che i viaggi nel tempo non si possono fare. Se si potessero fare, ci sarebbero dei paradossi da risolvere, già analizzati in lungo e in largo da tutto il mondo della fantascienza, spesso con risultati molto interessanti, e a volte con buchi nella trama incolmabili. Un po' per colpa dei paradossi che vanno risolti in un qualche modo, un po' perché gestire i viaggi nel tempo è difficilissimo. Una sola citazione: la clessidra giratempo di Harry Potter”.

“Questo era un esempio di buco nella trama, vero?”.

“Purtroppo sì”.

“Però queste sono tutte opere di fantasia, non c'è niente di vero, quindi in un certo senso vale tutto”.

“Vero. Parliamo allora di scienza”.

“Oh, bene”.

“I fisici si dividono in due categorie: i teorici e gli sperimentali. I teorici sono matematici con idee strampalate su come funziona il mondo, gli sperimentali sono quelli che dicono ai teorici che si stanno inventando le cose”.

“Ehm”.

“Ok, lo dico meglio perché ho molti amici fisici”.

“EHM!”.

“Allora, il metodo scientifico funziona così: si formulano teorie e si prova a verificarle. Se l'osservazione mostra risultati diversi da quelli previsti dalla teoria, vuol dire che la teoria è sbagliata e si prova a costruirne un'altra”.

“E se i risultati coincidono?”.

“Diciamo bello! e proviamo a progettare altri esperimenti, ma non possiamo dire che la teoria sia giusta. Non potremo mai dire che una teoria è giusta, potremo solo falsificarla. Certo, i risultati che confermano la teoria sono entusiasmanti, ma i fisici sono contenti anche se arrivano risultati in contrasto con la teoria, così possono inventarsi qualcos'altro”.

“Non abusare della pazienza dei tuoi amici fisici”.

“Ma è così, i risultati degli esperimenti alimentano la teoria, e viceversa la teoria dà l'idea per fare nuovi esperimenti. È il bello della fisica, ed è proprio quello che manca nell'insegnamento della fisica a scuola”.

“Capirai”.

“Eh, a scuola servono laboratori, spazi, soldi per costruire entrambi”.

“Soldi che non arrivano”.

“No, e quindi la fisica diventa una serie di esercizi sempre più complicati di applicazione delle formule. Che non sono una cosa brutta, beninteso, i problemi teorici possono essere molto belli, ma se manca la parte sperimentale che fisica è? Che differenza c'è tra questa fisica e la matematica applicata?”.

“Giusto l'ambientazione dei problemi, temo”.

“Eh, e qualche formula in più da imparare. Ma torniamo ai viaggi nel tempo”.

“È meglio”.

“Tutto parte da Einstein”.

“Tante cose partono da Einstein, mi pare di capire”.

“Già. Ricordo ancora la prima lezione di teoria della relatività all'università, durante l'insegnamento di Fisica 1. Il prof comincia a raccontare un po' di cose, e arriva in fretta a dire che il tempo non è un assoluto e che è possibile che due orologi si muovano a velocità diverse. E io ero lì che ascoltavo a bocca aperta e mi chiedevo se stavo capendo bene perché questo signore stava dicendo cose evidentemente false”.

“Eh eh”.

“Poi, visto che insisteva su questo fatto della non sincronizzazione degli orologi, ho cominciato a dirmi ma allora è vero? E intanto lui stava parlando anche di righelli che possono cambiare lunghezza a seconda della velocità con cui si muovono e allora boom, si è aperto un mondo nuovo”.

“Che bello”.

“Bellissimo, sono quelle sensazioni che non ti dimentichi più”.

“E il prof si è messo a parlare di viaggi nel tempo?”.

“Non subito, ma dopo qualche lezione, studiando le equazioni che erano state ricavate nel frattempo, ha fatto notare il fatto che esse impedivano a qualunque corpo dotato di massa di raggiungere e superare la velocità della luce, ma non impedivano l'esistenza di particelle che si muovono a velocità superiori a quelle della luce, a cui le equazioni impedirebbero però di rallentare troppo. Come se il mondo fosse diviso in due parti che non possono comunicare tra loro: il mondo delle cose lente, il nostro, e il mondo delle cose veloci, dei tachioni”.

“Ed è subito Star Trek”.

“Ovviamente. E qui entra in gioco il metodo scientifico: dato che le equazioni non impediscono moti a velocità superiori a quelle della luce, siamo in grado di progettare esperimenti per osservare queste ipotetiche particelle? Siamo in grado di passare di là, in quel mondo? Io poi ho studiato matematica, e il programma non prevedeva lo studio della teoria della relatività generale, di cui ho sentito parlare solo anni dopo, durante un esame dell'ultimo anno, ma il fatto è che non è solo la velocità che permette di fare viaggiare il tempo in modo diverso e che permette alle lunghezze di contrarsi, ma c'è di mezzo anche la gravità”.

“Ed ecco Interstellar”.

“Esatto, per citare un solo esempio. Quindi i fisici si sono presi le equazioni di Einstein e si sono chiesti cosa succederebbe se? Esistono soluzioni che permettono i viaggi nel tempo? Possiamo vedere nel futuro, come gli indovini di Dante? E magari sperando nella clemenza di Dio, nel frattempo?”.

“E hanno avuto risposta, almeno per la prima parte?”.

Risposte teoriche ne esistono, ma sono reali? Si possono verificare, almeno? Il fisico sperimentale riuscirà a costruire una vera macchina del tempo?”.

“Eh, cominciamo dall'inizio”.

“Allora, le risposte teoriche ci sono. Se accettiamo l'idea che la gravità curva lo spazio — e finora tutti gli esperimenti l'hanno confermato — e accettiamo l'idea che lunghezze e tempo sono misure locali, che possono cambiare a seconda della velocità dell'osservatore — e finora tutti gli esperimenti l'hanno confermato — allora è possibile curvare lo spazio così tanto da creare delle curve spaziotemporali chiuse. Questo dice la teoria, ma nessun esperimento ha mai verificato la cosa”.

“Cosa sono queste cose?”.

“Sono un modo matematico per dire che un oggetto, o una persona, può osservare il proprio orologio scorrere normalmente ma, nello stesso tempo, può compiere un percorso che ritorna alla condizione iniziale, cioè nella stessa posizione e nello stesso tempo dal quale la persona era partita”.

“Eh?”.

“Non so dirlo meglio. Fai un giro e torni all'inizio, dove per inizio si intende non solo la stessa posizione ma anche lo stesso istante”.

“Che roba. Ed è vero?”.

“Boh? Cosa è la verità?”.

“Dai”.

“Nessun esperimento l'ha confermato”.

“Ok”.

“Se fosse vero, ci sarebbero tutti i problemi dei paradossi temporali di cui si parla nella fantascienza. Posso tornare indietro e uccidere Hitler, cambiando la storia? Se potessi uccidere Hitler, la storia poi cambierebbe davvero? Posso uccidere mio nonno? Esisterò ancora dopo? Molti paradossi riguardano la morte, e questo ci dice tante cose”.

“Già”.

“Si possono fare anche paradossi meno cruenti, comunque. Eccone uno: se io lancio una palla da biliardo in una macchina del tempo che risputa fuori la stessa palla in modo tale che essa urti con la copia di sé stessa che sta ancora cercando di entrare nella macchina, deviandola, cosa succederà? Se avviene la deviazione, la palla non entrerà nella macchina, ma allora non potrà nemmeno uscirne, e quindi non ci sarà la deviazione, e allora la palla entrerà, ma quindi poi uscirà e produrrà la deviazione, ma allora…”.

“Ok, ok, ho capito”.

“L'ideale sarebbe questo: costruiamo una di queste macchine, poi proviamo a vedere cosa succede. E quindi i fisici hanno cominciato a progettarne una. Ma finora hanno trovato dei problemi insormontabili”.

“Tipo?”.

“Tipo il fatto che per piegare lo spazio così tanto da creare delle curve spaziotemporali chiuse servono delle masse molto, molto elevate. Infinite, qualunque cosa ciò significhi”.

“Cosa che non si può fare”.

“Si potrebbe fare con dei buchi neri”.

“Oh”.

“Già. L'idea, per realizzare l'esperimento, sarebbe quella di avere due automobili contenenti due buchi neri, una che viaggia velocissima rispetto all'altra: in quel caso si potrebbero realizzare quelle famose curve chiuse. L'alternativa sarebbe quella di usare delle masse negative, che appaiono ancora più esotiche”.

“Ma esistono?”.

“Boh, se si entra nel mondo della meccanica quantistica forse si potrebbe dare un significato all'idea di massa negativa, ma la risposta al momento è boh”.

“Quindi niente viaggi nel tempo”.

“Una possibilità reale esiste, invece, e che risolve anche i paradossi”.

“Davvero?”.

“Sì, ma con un prezzo che non so quanti siano disposti a pagare: si tratta di un viaggio di sola andata, nel futuro”.

“Già noi stessi stiamo tutti viaggiando nel futuro, dato che il tempo passa. Stai parlando di questo?”.

“No, sto parlando di una velocità maggiore. La teoria della relatività dice che se un corpo viaggia ad alta velocità, il suo tempo locale scorre più lentamente rispetto a un corpo che viaggia a velocità minore”.

“La tua prima lezione di fisica”.

“Esatto. Questo è un fatto verificato: hanno preso degli orologi atomici, li hanno sincronizzati, ne hanno tenuto uno a terra e hanno caricato l'altro su un aereo. Poi hanno fatto viaggiare l'aereo per un po' di tempo, e quando è tornato a terra hanno verificato che gli orologi non erano più sincronizzati”.

“Ah”.

“Gli effetti della teoria della relatività sono reali, sono misurabili, e bisogna tenerne conto nelle attuali applicazioni tecniche. C'è un esempio particolare che tutti conosciamo e che senza gli studi sulla relatività non funzionerebbe”.

“Quale?”.

“Il GPS”.

“Ma dai?”.

“Sì, la tecnica si basa sulla ricezione di un segnale orario spedito dai vari satelliti in orbita. L'orario deve essere precisissimo se vogliamo che il GPS non ci faccia sbagliare strada, dato che a volte basterebbero pochi metri. E allora bisogna tener conto di due aspetti: i satelliti viaggiano ad alta velocità, e quindi il loro tempo proprio viaggia più lento del nostro, ma si trovano lontani dalla terra, quindi risentono meno della gravità, e allora il loro tempo proprio viaggia più veloce del nostro”.

“Ma come, viaggia più lento o più veloce?”.

“Due aspetti diversi lottano tra loro, ma non si cancellano esattamente. Quindi bisogna tener conto di entrambi gli effetti per poterli bilanciare correttamente, in modo che gli orologi lassù e quelli quaggiù siano perfettamente sincronizzati. Senza la teoria della relatività generale ci perderemmo per strada”.

“Che roba. E quindi questa variazione della velocità degli orologi ci permette di viaggiare nel tempo?”.

“Sì, in questo modo. Noi saliamo su un'astronave, partiamo, ci facciamo un viaggetto di qualche settimana o qualche mese, e quando torniamo ci accorgiamo che sulla terra sono passati dei secoli”.

“Quanti?”.

“Dipende da quanto andiamo veloci. Più siamo veloci, più la differenza di tempo aumenta. Bisogna dire che oggi astronavi di questo tipo non esistono ancora, ma questa è una limitazione tecnica, non scientifica. Questo fenomeno, che in piccolo è verificato dall'esperimento degli orologi atomici di cui parlavamo prima, viene detto paradosso dei gemelli: il gemello che rimane sulla terrà sarà molto più vecchio del gemello che tornerà dal viaggetto in astronave. E così si potrà viaggiare nel futuro. Il gemello giovane scenderà dall'astronave e darà un'occhiata al futuro”.

“Ma non potrà tornare indietro”.

“No, non si torna. Non si potranno fare profezie”.

“Niente quarta bolgia”.

“E niente testa girata in stile esorcista”.

sabato 2 settembre 2023

Inferno, canto XIX

“Siam giunti alla terza bolgia di Malebolge, dove vengono puniti i simoniaci”.

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.

“Oh, bene, sono d'accordo. C'è una pena interessante?”.

Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.

“Dei fori?”.

“Dei fori”.

“E a cosa servono?”.

“Ci stanno infilati dentro i peccatori, a testa in giù. Le gambe spuntano dal grosso in su, e i piedi sono tormentati da qualche fiammella”.

“Benissimo. Anche se stare sempre a testa in giù deve essere già una bella pena”.

“Sì, infatti. Ma c'è stato un breve periodo, sufficientemente recente, in cui si pensava che stare a testa in giù facesse bene”.

“Ma dai? Ma quando?”.

“Beh, c'è una scena notevole di un film famoso che dimostra l'idea meglio delle parole”.



“Ohh, ma cosa hai tirato fuori!”.

“Visto che roba? Nei ruggenti anni 80 si pensava che queste pratiche fossero salutari. Cioè, per essere più precisi: già da prima qualcuno sosteneva che la cosiddetta inversione della gravità facesse bene alla salute, ma in seguito al film American Gigolò ci fu un notevole aumento nelle vendite”.

“E poi?”.

“Poi un medico cominciò a dire che stare a testa in giù provocava un aumento della pressione sanguigna e oculare”.

“E questo non va bene”.

“No, e le vendite cominciarono a scendere. Lo stesso medico poi continuò a studiare la cosa e disse che il corpo umano aveva meccanismi compensativi, e ritrattò lo studio precedente, ma ormai era stato instillato il dubbio e le vendite calarono”.

“Fine della bolla”.

“Già. Oggi qualcuno continua a vendere sia quelle cavigliere che indossava Richard Gere sia dei lettini che si possono inclinare in modo da mettere la persona a testa in giù, dicono che faccia bene alla schiena”.

“Senza fiamme ai piedi, però”.

“Quelle no, nessuno dice che i piedi infuocati facciano bene”.

“Chissà se si sta davvero bene coi piedi all'insù”.

“Coff coff”.

“Cosa?”.

“Confesso che negli anni 80 quelle cavigliere le ho provate anche io”.

“Ah-ha!”.

“Le avevano nella palestra in cui andavo, vuoi non provarle?”.

“Eh, infatti. E come si sta?”.

“Va il sangue alla testa, ma dopo un po' ci si abitua. E allora la mia schiena stava bene, quindi non saprei dire se ho avuto benefici oppure no”.

“Beh, gli astronauti sulla stazione spaziale internazionale proveranno le stesse sensazioni, no? In assenza di gravità…”.

“Un fisico ti interromperebbe subito e ti direbbe che sulla stazione spaziale non si è in assenza di gravità”.

“Ma come?”.

“Eh, no, la terra è vicina, la gravità si fa sentire, anche se meno”.

“E allora perché vediamo gli astronauti coi capelli per aria, come se fossero in assenza di gravità?”.

“Partiamo dall'inizio. La legge di gravitazione universale dice che due corpi si attraggono con una forza che è proporzionale alle due masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. In formule, se indichiamo con G la costante di proporzionalità, abbiamo F = GM1M2/r2”.

“Ok, questa l'ho studiata a scuola”.

“La forza dunque non svanisce oltre una certa distanza, anche se a distanze molto grandi o con masse molto piccole diventa trascurabile. Però la stazione spaziale internazionale non è a distanza molto grande: si trova a quasi 427 km di distanza dalla superficie della terra”.

“E a quella distanza il peso quanto vale?”.

“Se non ho sbagliato i conti (cosa sempre possibile, i Veri Matematici usano solo lettere, come si sa), il peso di un corpo che si trova a quell'altezza è uguale al peso al livello del mare moltiplicato per 0.88”.

“Ah. Non molto di meno”.

“Eh, no”.

“E quindi perché diciamo che sulla stazione spaziale internazionale si è in assenza di gravità? Perché i capelli sono sparati verso l'alto?”.

“Diciamo così perché sbagliamo o, meglio, perché vogliamo dire un'altra cosa. Infatti i capelli sono sparati in aria perché gli astronauti stanno cadendo, e quindi loro si sentono in apparente assenza di gravità. Gli astronauti, poi, non cadono rovinosamente sulla terra perché stanno anche ruotando intorno a essa”.

“Ok”.

“L'esempio che si fa spesso è questo: sei sulla cima di una montagna molto alta e lasci cadere un sasso: il sasso cade a terra e non succede niente di speciale. Poi ne lasci cadere un altro dandogli una spinta orizzontale: il sasso cade un po' più in là. Poi continui, dando spinte orizzontali sempre più forti: il sasso cade sempre più lontano, comincia a girare un po' intorno alla terra prima di schiantarsi, e a un certo punto lo lanci talmente veloce che fa tutto il giro e, se non si fa attenzione, si rischia di essere colpiti da dietro. In tutti questi esempi la forza di gravità c'è sempre. Anzi, se non ci fosse, il sasso non potrebbe ruotare e proseguirebbe dritto”.

“Questo agli astronauti non piacerebbe molto”.

“No, farebbero la fine degli occupanti di Base Alpha, come raccontava la serie TV Spazio 1999”.

“Oggi si fanno citazioni classiche, vedo”.

“E per rimanere in tema di citazioni classiche, anche nel famoso 2001 Odissea nello spazio si mostra la cosiddetta assenza di gravità: c'è una scena in cui una hostess cammina rimanendo in piedi senza fluttuare in aria usando scarpe col velcro”.

“Meglio il velcro del fuoco”.

“Suggerirei di lasciare il fuoco ai simoniaci, e di guardarci l'allora comandante della stazione spaziale internazionale replicare la scena girata da Kubrick, che all'epoca avrebbe sicuramente voluto girarla su una vera astronave”.


venerdì 9 giugno 2023

Inferno, canto XVIII

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge

“Un altro inizio notevole”.

“Sì, potremmo fermarci qua e godercelo”.

“Sarebbe un record sul commento più breve al diciottesimo canto dell'Inferno”.

“Eh, ho capito. Allora andiamo avanti, anche se non troveremo legami con la scienza”.

“Ma immagino che troveremo comunque qualcosa su cui parlare”.

“L'idea è quella, già. Siamo a Malebolge, e questo si era capito. Dante descrive il luogo, dice che c'è una voragine al centro della piana di Malebolge. Il terreno che circonda la voragine è diviso in dieci zone, dieci bolge, divise da fossati come quelli che circondano i castelli. E così come avviene per i castelli, si possono attraversare i fossati grazie ai ponti”.

“I ponti sono importanti”.

“Eh sì”.

“Che succede nelle bolge?”.

“Sono piene di dannati che camminano, di anime in pena che non stanno mai ferme. Per fare un paragone, Dante dice:”.

Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte

“Un altro ponte”.

“Esatto. I romani organizzavano il traffico di pellegrini lungo il ponte come i diavoli dell'inferno organizzano il traffico dei dannati nelle bolge: tutti in ordine, mantenete la destra, avanti, avanti! A un certo punto Dante incontra un volto conosciuto e si ferma a parlare”.

“Chi è?”.

“Venedico Caccianemico”.

“Non lo ricordo dai miei studi scolastici”.

“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere a una domanda non fatta. Comunque era un ruffiano”.

“Ah”.

“Il dialogo non dura molto perché a un certo punto arriva un diavolo che scaccia Venedico con una scudisciata, spiegandogli che in quel luogo non son femmine da conio”.

“Benissimo”.

“I due poeti si spostano, attraversano un ponte (ancora ponti, sì) e vedono, in lontananza, Giasone”.

“Quello del vello d'oro?”.

“Quello lì”.

“E qual era la sua colpa?”.

“Giasone viene classificato da Dante come seduttore: racconta in alcuni versi la sua storia, e dice che ingannò la giovanetta Isifile. Dopo essersi divertito lasciolla quivi, gravida, soletta;”.

“Ahi”.

“Il ponte conduce all'argine che fa da confine alla seconda bolgia, nella quale scontano la loro pena gli adulatori, tra cui un altro voto noto a Dante, un tale di nome Alessio Interminelli. Con lui Dante non parla, perché ha fretta di scrivere un po' di parolacce relative alla prossima anima: si tratta di Taide, che viene così descritta:”.

di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.

“Ah però”.

“E qui si chiude il canto”.

“E noi di cosa parliamo?”.

“Di ponti”.

“Benissimo”.

“I ponti non sono un'invenzione recente, anzi”.

“Eh, no”.

“Come fanno a stare in piedi? Perché non cadono?”.

“Beh, hanno dei sostegni, sono fatti di materiali rigidi e resistenti”.

“Sì, vero, ma non basta. Cioè, basta se il ponte è corto, ma se vuoi farlo lungo ti serve ragionare un po' di più. Per esempio, prendiamo un arco: perché non crolla?”.


(wikimedia commons)

“Ah, lo so: la forma dell'arco distribuisce le forze lungo il perimetro, in questo modo la spinta viene rediretta lungo i sostegni che si trovano agli estremi dell'arco”.

“Hai mai provato a fare un arco così come dici?”.

“Uhm, no”.

“Perché se provi, ti accorgi che non è mica vero che sta in equilibrio: la spinta laterale fa sì che i due estremi si allontanino tra loro, fino a che l'arco non crolla. Se prendi dei sassi e cerchi di fare un arco appoggiandoti su un tavolo liscio, ti scivola tutto”.

“Ma come?”.

“Eppure è così: la roba scivola”.

“Dato che gli archi stanno in piedi e, di solito, non crollano, ci deve essere una spiegazione”.

“Certo: bisogna impedire che i piedi d'appoggio dell'arco, i piedritti, scivolino verso l'esterno: serve una struttura che lo faccia”.

“Quindi, nel mio ipotetico esperimento coi sassi e il tavolo, io dovrei impedire ai due punti d'appoggio di muoversi”.

“Sì, devi appoggiare altre cose sufficientemente pesanti ai bordi, o dotare di sufficiente attrito i punti di contatto col tavolo”.

“E nelle costruzioni vere come si fa?”.

“Si usano appoggi robusti, o anche forze equilibranti. Per esempio, si costruiscono dei contrafforti o, addirittura, degli archi rampanti”.


(wikimedia commons)

“Belli. Ma poi anche quelli avranno una spinta laterale da sostenere, no?”.

“Esatto, ma pian piano quelle spinte vengono dirette verso l'esterno e la loro direzione viene cambiata, in modo tale da farla diventare sempre più vicina alla verticale. Inoltre, per evitare che la parte che sostiene l'esterno dell'arco spanci, si rende la costruzione più robusta aumentando il peso che grava su di essa, con pinnacoli o guglie belle alte”.

“Ah, giusto: una guglia alta non è solo bella, ma ha anche la funzione di essere pesante e stabilizzare tutto”.

“Proprio così. Poi arriva la matematica, che si chiede quale debba essere la forma di un arco in modo tale che le spinte laterali siano minime? Si può fare un arco che sostenga sé stesso senza bisogno di rinforzi?”.

“E si può?”.

“Si può. Il primo a studiare il problema fu Hooke”.

“Quello della legge delle molle?”.

“Quello, che ha studiato un po' tutto quello che c'era da studiare”.

“E cosa ha capito?”.

“Beh, intanto ha avuto l'idea di capovolgere il problema: appendiamo una catena a due sostegni, e vediamo che forma avrà. Capovolgiamo la catena, e questa diventa un arco”.

“Ho già sentito questa storia”.

“Probabilmente in riferimento a Gaudì, che l'ha realizzata magistralmente. Nel museo che si trova di fianco alla Sagrada Familia di Barcellona c'è un modello della chiesa fatto con catene appese: uno specchio sul fondo permette di capovolgere la struttura e osservarla come se fosse un modellino della chiesa stessa”.

“Bello”.

“Quindi un arco che si può sostenere da solo, riducendo al minimo le spinte laterale, è un arco a forma di catenaria, che è il nome dato alla curva formata da una catena appena a due punti”.

“Perché catena? Cioè, perché quel particolare oggetto? Non possiamo dire corda, o filo?”.

“Diciamo catena per sottolineare due aspetti: il primo è che la catena è un oggetto pesante. Non vogliamo che si pensi a un filo ideale senza massa: stiamo parlando di problemi legati al peso degli oggetti. Il secondo motivo è che il peso della catena è distribuito in modo uniforme, non è concentrato da nessuna parte in particolare”.

“Bene, capito”.

“La funzione che descrive la catenaria si chiama coseno iperbolico, ed è formata dalla somma di una funzione esponenziale crescente con una decrescente. Ma tanto vale vederne una, anche se non è formata da una catena in cui la massa è distribuita in modo uniforme:”.


(wikimedia commons)

“Woah”.

“Fa un bell'effetto, sì. Dobbiamo fare attenzione a una cosa: questo arco non sostiene nulla, non ci sono pareti sopra, non c'è una passerella: lui è un ponte, se vogliamo, ma non un sostegno. Se lo vogliamo usare come sostegno, immaginando che sopra di esso ci sia una massa distribuita uniformemente, allora dobbiamo cambiare un po' le cose, perché in effetti non si tratta più di una catena”.

“Giusto, le parti laterali devono sostenere più peso. Cambia quindi la forma?”.

“Sì, un pochino. Matematicamente cambia tutto, ma a occhio non è facile vedere la differenza: se l'arco deve sostenere una massa uniformemente distribuita, allora la forma ideale è la parabola. Come a Palau Guell, di Gaudì:”.



“Ah”.

E quinci sian le nostre viste sazie”.

“Chissà cosa avrebbe detto Dante di questi ponti”.

“Eh, a volte penso se riconoscerebbe in questa struttura una chiesa”.



“E chissà dove avrebbe voluto collocare Gaudì”.

“A volte penso tra gli angeli. Altre volte penso che forse l'avrebbe messo in una delle bocche di Lucifero. Io preferirei tra gli angeli, però”.

martedì 9 maggio 2023

Inferno, canto XVII

«Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti, e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!».

“Si comincia benissimo”.

“Visto? Il mostro annunciato alla fine del canto precedente ora è arrivato: è Gerione, un demone puzzolente, immagine dell'inganno”.

“In che senso?”.

“Ha la faccia di un uomo giusto, rassicurante, ma il corpo di serpente”.

“Ah”.

“Due zampe pelose, mentre il dorso, il petto e i fianchi sono dipinti con nodi e rotelle”.

“Ah, i tatuaggi sui fianchi, diciamo così, sono tornati di moda però”.

“Certo. Gerione ha poi una lunga coda che guizza nel vuoto, coda che termina con un pungiglione”.

“Naturalmente”.

“E Gerione è il traghettatore che i due poeti dovranno prendere per scendere dal burrone sul quale si trovano”.

“Dante non ne sarà felice”.

“Neanche un po'. Prima, però, Dante scambia qualche parola con un gruppo di dannati seduti sulla sabbia, che cercano di ripararsi dalla pioggia di fuoco”.

“Chi sono?”.

“Sono gli usurai, che nella tassonomia dell'Inferno sono collocati qui perché sono violenti contro Dio nell'operosità umana”.

“Cosa significa?”.

“Significa che si sono arricchiti non grazie al duro lavoro, come dovrebbe fare ogni buon cristiano, ma grazie al denaro”.

“Finalmente un peccato su cui siamo d'accordo”.

“Davvero? Cosa intendiamo per usura?”.

“Ma certo che è vero! L'usura è una colpa tremenda”.

“Dammi una definizione”.

“Beh, è quando richiedi per un prestito un interesse eccessivo”.

“Sai che un Vero Matematico ha bisogno di definizioni precise: quanto è eccessivo?”.

“Oh, santo cielo. Il codice penale italiano prevede il delitto di usura, via”.

“Sì, e dice che il tasso da considerare come eccessivo è stabilito dalla legge. Attualmente il limite oltre il quale gli interessi sono ritenuti usurari è calcolato aumentando il Tasso Effettivo Globale Medio di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali. La differenza tra il limite e il tasso medio non può essere superiore a otto punti percentuali”.

“Santo cielo”.

“E come in tutti i confini, c'è sempre il problema di chi ci abita vicino e li considera artificiali: basta un centesimo di meno perché il tasso sia lecito, basta un centesimo di più e il prestito diventa usura, e si va in galera”.

“Eh, sì, tracciare confini netti pone sempre dei problemi. Chissà dov'era quel confine ai tempi di Dante”.

“Oh, qui la risposta è molto facile: il confine era a zero”.

“Zero?”.

“Sì: qualunque interesse era considerato usura. Il denaro è sterile, non può produrre frutti: far fare frutti al denaro è un peccato contro la natura stessa, cioè contro Dio”.

“Accidenti. Sai però che, quasi quasi…”.

“Eh eh”.

“Questa idea risolverebbe un po' di problemi”.

“Eh. Diciamo che ai tempi di Dante avevano risolto drasticamente il paradosso del sorite”.

“Il paradosso di cosa?”.

Sorite. Parola greca che significa mucchio”.

“Mucchio? Di cosa?”.

“Di quello che vuoi. Una formulazione classica del paradosso prevede di avere a che fare con un mucchio di sabbia, ma noi possiamo immaginarci un mucchio di soldi, come nel deposito di Zio Paperone”.

“Ok, e cosa ci facciamo con questo mucchio? Oltre ai tuffi, come faceva Zio Paperone”.

“Beh, possiamo certamente classificare Zio Paperone come un riccone, vero? Il suo patrimonio è tanto, un mucchio di soldi”.

“Sicuramente”.

“E se noi togliamo una monetina dal mucchio, quello rimane un mucchio”.

“Sì, anche se Zio Paperone non sarebbe contento”.

“E anche se togliamo una seconda moneta dal mucchio, il mucchio rimane tale”.

“Un po' più piccolo”.

“Certo, ma ancora un bel mucchio. E se continuiamo così?”.

“Eh, pian piano cala e poi sparisce”.

“Esatto. E in quale istante il mucchio non è più mucchio? Quando perde la caratteristica di essere mucchio? La sua mucchiosità?”.

“Eh, boh, non si può mica dire”.

“E così eccoci al paradosso: a un certo punto il mucchio non è più mucchio, ma non possiamo stabilire quando. Qualsiasi confine noi mettiamo diventa arbitrario: possiamo stabilirlo per legge, possiamo tirare una riga a un certo punto, ma non ci sono motivi per preferire un momento rispetto a un altro. La logica binaria qua non funziona, ci accorgiamo che non ci basta dire ora sì e ora no, ma ci servono valori intermedi”.

“Una logica a tre valori?”.

“Osiamo di più: una logica a infiniti valori. Una logica in cui tra 0 e 1 ci sono tutti i valori possibili, tutti i numeri reali”.

“Ah, ed esiste una roba del genere?”.

“Certo, si chiama logica fuzzy, o logica sfumata”

“Un delirio matematico senza senso?”.

“Al contrario, un'idea con molto senso e molte applicazioni pratiche”.

“Per esempio?”.

“Per esempio un impianto di riscaldamento, o raffreddamento. Hai presente quei termostati che attaccano e staccano l'impianto quando si supera una certa temperatura?”.

“Certo. In quel caso c'è un confine, se lo superi accendi, se non lo superi spegni, o viceversa, dipende se vuoi scaldare o raffreddare”.

“Esatto. In casa c'è caldissimo, accendo il condizionatore, la temperatura scende, poi arrivo a una certa soglia e clic, l'impianto si spegne. Pian piano la casa si riscalda e se supero la temperatura, riparte l'impianto. Non molto simpatico per chi sta sotto il soffio dell'aria fredda”.

“Eh vabbé, pazienza, si sposterà”.

“Ma se prendiamo un sistema moderno, con inverter e regolazioni più sofisticate, non abbiamo solo due situazioni: o aria fredda a palla oppure niente aria fredda. Quando la temperatura ambiente sta per raggiungere la temperatura richiesta, allora il flusso d'aria diminuisce ma senza che si spenga completamente. Non c'è più una logica a solo due valori, acceso e spento”.

“Ah, ci sono valori intermedi, giusto! Motore acceso al cinquanta per cento, per esempio”.

“O qualunque altra percentuale, volendo”.

“Ottimo”.

“Questo è il paradosso del sorite: se usiamo una logica a due valori, un mucchio che cala a un certo punto non sarà più un mucchio, ma non siamo in grado di dire in quale istante preciso esso perda la propria caratteristica di mucchio”.

“Con una logica sfumata potremmo parlare di mezzo mucchio, di mucchietto, e così via”.

“Esatto. L'alternativa è fare come Dante con gli usurai”.

“Cioè tutto è mucchio, a meno che la sabbia non se ne sia andata completamente”.

“Esatto”.

“Ma sai che…”.

“Lo so”.

domenica 2 aprile 2023

Inferno, canto XVI

Basta con questi stranieri!”.

“Cosa c'è?”.

Questa gente che non è fiorentina, che non conosce le nostre usanze e le nostre tradizioni! Cosa viene a fare qui?”.

“Ma chi? Ma cosa?”.

Questi extracittadini, che vengono qua e rovinano il clima della nostra bella città!”.

“Ma che città? Cosa stai dicendo?”.

Vengono da fuori, sono alteri, boriosi, sono dei parvenu”.

“Vabè, quando hai finito poi mi spieghi”.

“Ho finito: stavo parafrasando uno dei temi del sedicesimo canto dell'Inferno”.

“L'invasione degli stranieri? La sostituzione etnica? Il crollo delle tradizioni?”.

“Esatto”.

“Ma di chi stiamo parlando?”.

“Dei contadini che abitano fuori Firenze e che, forti dei loro improvvisi guadagni vengono in città e fanno il bello e il cattivo tempo, rovinando la nostra bella città! Prima i fiorentini!”.

“Ma dai, Dante dice questa roba?”.

“Eh sì, nel sedicesimo canto, incontrando dei suoi concittadini”.

“Concittadini che sono all'Inferno, quindi non sono proprio degli stinchi di santo. Che peccato hanno commesso?”.

“Hanno peccato contro natura”.

“Ah. Meglio non commentare”.

“Uno di loro si giustifica, però”.

“In che modo?”.

“Così:”.

E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui; e certo
la fiera moglie più ch’altro mi nuoce

“Capisco bene? Colpa della moglie?”.

“Capisci bene. Del resto, se uno ha una fiera moglie è facile che prenda la navicella e si diriga verso l'altra sponda”.

“Ma santo cielo”.

“Assieme a Iacopo Rusticucci ci sono anche Guido Guerra e Tegghiaio Aldobrandi”.

“Nomi decisamente fiorentini”.

“Dialogando con Dante, questi poveretti gli domandano se a Firenze albergano ancora cortesia e valore”.

“E Dante dice di no?”.

“Dice di no, per colpa di questi stranieri che vengono nella nostra bella città e…”.

“Ho capito, ho capito”.

“Dante lo dice così:”.

La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni

“E la gente nuova sono i contadini che abitano in periferia”.

“Eh sì”.

“Benissimo. Abbiamo anche qualcosa di scientifico in questo canto, oltre a queste invettive?”.

“Eh, il canto è dedicato per buona parte ai tre disgraziati e alla povera Firenze, ma nel finale si riscatta, ed è dal finale che prendiamo spunto”.

“Cosa succede nel finale?”.

“Nel finale i due poeti devono scendere verso il fondo dell'inferno, ma la strada non è semplice. Il Flegetonte si getta verso il basso con una cascata, e il sentiero si interrompe. Allora Virgilio esegue una strana manovra: si fa dare da Dante la cintura e la getta in fondo al burrone, come se questo fosse un segnale convenuto tra lui e qualcun altro”.

“E che succede? A parte il fatto che Virgilio avrebbe potuto gettare la sua cintura, invece che quella di Dante”.

“Succede una cosa molto strana, tanto che Dante impiega un certo numero di versi per assicurare al lettore che non sta dicendo cose inventate, che è tutto vero, anche se molto strano. Insomma, crea un po' di hype”.

“E poi?”.

“E poi arriva”.

“Ma chi?”.

“Arriva uan figura dal basso, che sembra nuotare nell'aria”.

“E chi è?”.

“Uno che fa meravigliare anche il cuore più coraggioso:”.

[ch’]i’ vidi per quell’aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

che ’n sù si stende, e da piè si rattrappa.

“Una figura che nuota nell'aria?”.

“Esatto, e per questo parliamo di nuoto”.

“E tutta questa storia per parlare di nuoto?”.

“Avresti preferito parlare dell'invasione della nostra sacra patria?”.

“Nono, va benissimo il nuoto”.

“Ottimo. Dunque, perché galleggiamo, quando siamo capaci di galleggiare?”.

“Per il principio di Archimede, direi”.

“Esatto: un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verso l'alto pari al peso del volume del fluido spostato. Ma questa è la versione facile”.

“In che senso?”.

“Nel senso che se il corpo è puntiforme va tutto bene, ma se non lo è bisogna capire qualcosa di più”.

“Ah, cosa?”.

“Sul corpo immerso agisce la forza di gravità, che possiamo pensare applicata nel centro di massa del corpo”.

“Il baricentro”.

“Quello. Anche la forza di Archimede è applicata in un centro di massa, ma non in quello del corpo sollevato, ma in quello del fluido spostato”.

“Ah”.

“Ed ecco che succedono cose nuove: immagina il nuotatore steso in acqua, orizzontalmente, con le mani avanti, le gambe tese, che tenta di galleggiare. La parte superiore dell'uomo è più leggera rispetto alla parte inferiore: i nostri arti inferiori devono sostenere il nostro peso, le gambe ci servono per camminare o correre, poi ci sono gli organi interni, e così via. In alto abbiamo solo la testa, che dovrebbe essere almeno un po' pesante e non piena d'aria, ma anche se stendiamo le braccia verso l'alto il nostro centro di massa è comunque più spostato verso i piedi”.

“E quindi?”.

“Quindi, siccome invece il centro di gravità dell'acqua che spostiamo è più in alto, la forza di Archimede e la forza di gravità non agiscono sullo stesso punto del nostro corpo, e noi percepiamo una rotazione: cerchiamo di stare orizzontali sulla superficie dell'acqua, ma i nostri piedi vanno in basso. Nel ruotare, i due centri di applicazione si spostano e, quando si trovano uno sulla verticale dell'altro, la rotazione si interrompe”.

“Ma con i piedi un po' affondati si nuota male”.

“Esatto, e quindi i nuotatori devono imparare a nuotare minimizzando la dispersione di energia, perché un corpo mezzo affondato deve vincere una forza di attrito maggiore. Per esempio, devono tenere la testa sott'acqua per più tempo possibile, in modo da sfruttare meglio la spinta di Archimede e da spostare un po' in avanti il loro centro di massa”.

“Ah, potrebbero nuotare sempre sott'acqua, a questo punto”.

“E infatti nel 1956 un nuotatore a rana giapponese vinse la medaglia d'oro inventando una nuova tecnica: dopo il tuffo iniziale non riemerse più, se non negli ultimi 5 metri”.

“Accidenti, un'intera vasca sott'acqua?”.

“Sì, quasi intera: poi riemergeva negli ultimi 5 metri, prendeva fiato, faceva la virata e tornava sotto: il regolamento lo permetteva”.

“Uno sforzo sovrumano”.

“E infatti molti nuotatori soffrivano molto, qualcuno si fermava senza fiato, qualcuno sveniva”.

“Non è mica bello svenire sott'acqua”.

“Infatti. A quel punto la federazione internazionale ha cambiato il regolamento, ponendo un limite alla distanza massima percorribile sott'acqua e obbligando il nuotatore a far emergere la testa fuori dall'acqua dopo ogni bracciata. Ma tutto questo è inutile, se poi non si spinge”.

“Beh, ovvio, muovendo gambe e braccia”.

“Certo. Il principio che permette a un corpo di muoversi in un fluido è quello di azione e reazione”.

“Ok”.

“L'acqua non offre appigli, e quindi cosa fa il nuotatore? Semplicemente, per modo di dire, la sposta. Il nuotatore, insomma, non spinge sé stesso, ma spinge via l'acqua, in direzione opposta a quella del movimento che vuole ottenere”.

“Quando un corpo A esercita una forza su un corpo B, anche il corpo B esercita la stessa forza sul corpo A”.

“Giusto: il nuotatore esercita una forza sull'acqua, spingendola indietro, e l'acqua restituisce il favore spingendo il nuotatore in avanti. Succede la stessa cosa nei razzi, ad esempio: il razzo espelle a gran velocità i gas di combustione verso il basso, e in cambio riceve una spinta verso l'alto”.

“Bello”.

“E si può scegliere: il nuotatore potrebbe spingere poca acqua a grande velocità, oppure molta acqua a bassa velocità, ottenendo lo stesso effetto”.

“E quale è meglio?”.

“Il secondo: muovere acqua a grande velocità produce turbolenze, aumenta gli attriti, e alla fine fa perdere energia. Meglio muovere molta acqua a velocità più bassa”.

“Come quando si usano le pinne?”.

“Esatto. Ci può essere anche un altro modo per limitare gli attriti: cercare di fare scorrere l'acqua nella maniera più liscia possibile, in modo che crei meno turbolenze possibile passando aderente al corpo”.

“E come si fa?”.

“Intanto ci si depila: i nuotatori sono sempre liscissimi”.

“Ecco”.

“Oppure si usa un materiale che ricopre la pelle e offre un attrito minore. Fino a qualche anno fa si usavano costumi speciali interi, che coprivano braccia e gambe, e che hanno permesso di superare molti record. Poi sono stati vietati”.

“Ah”.

“Anche se, per prima cosa, il regolamento internazionale specifica che i costumi devono essere rispettosi del comune senso del pudore”.

“Benissimo”.

“E come seconda cosa specifica che non possono essere trasparenti”.

“Perfetto”.

“Più avanti, specifica che devono essere filati di natura tessile, naturale o sintetica. Non impermeabili, che non aiutino nel galleggiamento, che non scendano sotto al ginocchio, che non coprano le braccia, e altre cose ancora.”.

“Che roba”.

“Eh, stilare un regolamento tecnico non deve essere semplice. Chissà che costume avrà il personaggio atteso da Dante e Virgilio”.

“Non mi hai ancora detto come si chiama”.

“No, però nuota a rana”.

giovedì 9 marzo 2023

Inferno, canto XV

Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo ’l fiotto che ’nver lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro felli.

“Eccoci”.

“Siamo nel canto XV, quello completamente dedicato a Brunetto Latini e all'ingrato popolo dei fiorentini”.

“Poveri fiorentini”.

“Ma non parliamo di questo: è difficile trovare qualche aspetto scientifico in questo canto, che è tutto un celebrare l'antico maestro e un profetizzare a Dante qualche sventura. Ci salva però la breve parte iniziale, in cui Dante spiega che il percorso che sta seguendo con Virgilio ora percorre un argine del Flegetonte, di cui osserva la forma”.

“Ah, un argine come quelli fiamminghi”.

“Sì. Dante cita Guizzante, che è Wissant, in Francia, e Bruggia, che è Bruges, in Belgio”.

“Vedo che cita anche il Brenta”.

“Sì, gli argini che i padovani hanno costruito lungo il Brenta. Così sono gli argini del Flegetonte, sul quale stanno camminando Dante e Virgilio, anche se non così alti e così grossi. E qui arriviamo al punto: perché gli argini devono essere alti e grossi?”.

“Beh, per evitare che l'acqua passi dall'altra parte”.

“O il sangue, nel caso del Flegetonte”.

“Va bene”.

“E perché anche grossi?”.

“Perché l'acqua spinge con forza”.

“Ma se hai presente come sono fatti gli argini e le dighe, non sono costruiti con uno spessore costante: sono più grossi in fondo”.

“Vero. Sarà perché l'acqua spinge con più forza in fondo?”.

“Esatto. La legge fisica di cui stiamo parlando si chiama legge di Stevino”.

“Mi pare di ricordare qualcosa”.

“Il nome è una italianizzazione, come al solito. Il nome originale è Simon Stevin e, guarda un po', era un matematico nato a Bruges”.

“Che, del resto, non è il vero nome della città”.

“Esatto, in olandese è Brugge”.

“Che assomiglia un po' di più al dantesco Bruggia”.

“E il cerchio si chiude. Ora, la legge di Stevino/Stevin dice che la pressione in un liquido incomprimibile è direttamente proporzionale alla profondità”.

“Più vai sotto, più c'è pressione”.

“Esatto. La pressione è proporzionale anche alla densità del liquido e all'accelerazione di gravità. Questo è il motivo per cui le dighe sono più larghe in fondo: devono sopportare una pressione maggiore”.

“Mi sembra una legge abbastanza semplice da capire”.

“Sì. Sarebbe diverso se il liquido (o, per meglio dire, il fluido) fosse comprimibile, come l'aria. In quel caso non avremmo più una legge lineare, perché il peso della colonna di fluido comprime il fluido stesso aumentandone la densità: è quello che succede con l'atmosfera terrestre, per esempio”.

“Quindi se noi saliamo in montagna misuriamo un calo di pressione che però non varia linearmente con l'altitudine?”.

“No, in quel caso c'è una legge esponenziale. Un altro aspetto di cui tenere conto, poi, è che la pressione dipende anche dalla densità del liquido: se ti immergi nel mercurio subisci un aumento di pressione maggiore”.

“Certo, se mi immergo nel mercurio forse devo preoccuparmi di qualcos'altro”.

“Sì, vero, l'esempio del mercurio era legato al barometro a mercurio”.

“Ah”.

“Che misura la pressione atmosferica con una colonna di mercurio: la colonna d'aria, fluido a bassa densità, è equilibrata da una colonna di mercurio non esageratamente alta: 760 millimetri”.

“Ah, vero, un tempo la pressione si misurava in millimetri di mercurio!”.

“Esatto. Se volessimo costruire un barometro ad acqua, dovremmo fare una colonna d'acqua alta 10.33 metri”.

“Un po' scomodo”.

“E se invece avessimo un lago di mercurio, dovremmo costruire delle dighe molto più larghe, sul fondo, rispetto alle nostre, altrimenti verrebbero travolte”.

“Per fortuna non abbiamo laghi di mercurio. Nemmeno a Dante è venuto in mente un Inferno con laghi di mercurio”.

“No, lui aveva un fiume di sangue. Ma, per fortuna, la densità del sangue è simile a quella dell'acqua, e quindi le dighe degli olandesi funzionerebbero bene”.

“Per fortuna, non mi piacerebbe assistere a uno tsunami di sangue”.

“Già, la scena di Shining è stata sufficiente”.

sabato 4 febbraio 2023

Inferno, canto XIV

“Ed eccoci al canto dove piovono fuoco e fiamme”.

“Chi sono i poveretti che subiscono questa pena?”.

“Sono i violenti contro Dio. Siamo in una zona sabbiosa, simile a un deserto; i violenti sono sdraiati, seduti o camminano a seconda del loro specifico peccato”.

“In che senso?”.

“Puoi essere violento contro Dio perché sei un bestemmiatore, e in quel caso sarai sdraiato. Oppure puoi essere violento contro Dio perché sei un usuraio…”.

“Cosa c'entra Dio con gli usurai?”.

“Ne parleremo approfonditamente più avanti. Per ora diciamo solo che un usuraio non lavora per guadagnare, mentre Dio ha fornito l'uomo dell'operosità perché con essa si guadagni da vivere. Dunque, se ti arricchisci tramite il denaro e non tramite il lavoro, hai peccato contro Dio”.

“Non so se scuotere la testa o applaudire”.

“Eh. E poi ci sono i sodomiti, peccatori contro Natura e quindi contro Dio”.

“Poveracci”.

“Su tutti, piove fuoco”.

Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.

“Una bella nevicata calda”.

“E qui abbiamo una prima osservazione naturale: la caduta della neve è più lenta della caduta della pioggia. Verticale, perché non c'è vento, e inesorabile”.

“Quell'ultimo verso descrive bene tutto. Ma, invece della pace della neve, c'è il tormento del fuoco”.

“Esatto. Ma andiamo avanti: dopo un incontro con Capaneo, uno dei sette re che assediarono Tebe, superbo odiatore di Dio, i due poeti incontrano un ruscello”.

Tacendo divenimmo là ’ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.

Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

“Acqua rossa?”.

“Sangue”.

“Ah, certo. E il Bulicame cos'è?”.

“Una fonte d'acqua sulfurea che si trova vicino a Viterbo. Mi piace molto il verso successivo, che sembra una annotazione inutile: quell'acqua veniva suddivisa tra le peccatrici, cioè le prostitute, che la usavano per lavarsi”.

“Perché ti piace?”.

“Perché anche qua con una riga in più riusciamo a visualizzare la scena, e poi perché tra tutti gli esempi che Dante avrebbe potuto trovare, ha scelto proprio le peccatrici, come se fosse loro affezionato. E non sto facendo allusioni, dico davvero. E infine perché questo è un ottimo servizio antibufala nei confronti di chi dice che nel medioevo erano tutti sporchi e non si lavavano mai”.

“Benissimo”.

“Segue poi una spiegazione tutt'altro che scientifica sulle origini dei fiumi infernali”.

“Inventata? Sbagliata?”.

“Richiama un passo della Bibbia, ma non ha nulla di scientifico. Si tratta di mitologia, insomma, ma leggiamo lo stesso. Virgilio comincia la spiegazione così:”.

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.

Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida:
or è diserta come cosa vieta.

Rea la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.

“Parla di Creta?”.

“Sì. Ora Creta è andata in rovina, ma anticamente era casta, o innocente, o perfetta e paradisiaca, se vogliamo. Sull'isola c'è una montagna, Ida, che un tempo era ricca di corsi d'acqua e di boschi, e Rea la scelse come nascondiglio per suo figlio Giove. Ma andiamo avanti, perché dentro al monte Ida c'era qualcosa”.

Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come suo speglio.

La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata;

da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel più che ’n su l’altro, eretto.

“Un vecchio”.

“Un vecchio che guarda Roma, la cui testa è fatta d'oro, braccia e petto d'argento, rame fino all'inguine, e sotto è tutta di ferro, tranne il piede destro che è di terracotta”.

“Che delirio”.

“Ed ecco da dove nascono i fiumi:”.

Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, foran quella grotta.

Lor corso in questa valle si diroccia:
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia

infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».

“Mamma mia”.

“La statua è tutta crepata, e dalle fessure escono lacrime che si raccolgono alla base e formano i fiumi: l'Acheronte, lo Stige e il Flegetonte. Le acque scendono per un canale fino al punto in cui non scendono più”.

“Eh, a un certo punto si fermeranno”.

“E laggiù formeranno il Cocito, ma per quello c'è tempo, bisogna arrivare fino al fondo dell'Inferno. E Dante, che ogni tanto fa delle domande da tontolone, ma diciamo pure che le fa per ragioni didattiche, chiede a Virgilio come mai quel fiume che hanno davanti lo incontrano soltanto adesso, quando invece esso nasce dalla statua, molto più in alto”.

“Santo cielo”.

“Eh, Virgilio infatti gli spiega che stanno girando intorno al bordo di una voragine, ma non l'hanno ancora percorso tutto, quindi è normale che non abbiano ancora visto tutto:”.

Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,

non se’ ancor per tutto il cerchio vòlto:
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto»

“Benissimo. Abbiamo letto tanto, ma qua non c'è nulla di scientifico”.

“Lo so. L'osservazione scientifica la facciamo quindi noi, a partire dalla spiegazione di Virgilio e dall'osservazione che l'acqua, come tutte le cose pesanti, cade verso il basso”.

“Sai che osservazione”.

“Eppure, soltanto nel 1847 il matematico Cauchy ha sfruttato questa osservazione per risolvere un problema che, altrimenti, non avrebbe saputo risolvere”.

“Uh, Cauchy non era mica l'ultimo arrivato”.

“Eh, no. Il problema era quello di determinare l'orbita di un corpo celeste a partire dalle sue equazioni del moto. Le equazioni di quel tipo sono molto complicate, e una risoluzione esatta spesso è impraticabile: ci sono troppe incognite da gestire e non è facile ridurle”.

“E quindi?”.

“Per semplificare le idee, supponiamo che le incognite siano solo due. Poi Cauchy dirà che anche se sono n va bene lo stesso, ma limitiamoci a due così vediamo le cose”.

“Speriamo di vederle”.

“Una funzione in una variabile è una curva (se non ci si mettono di mezzo gli analisti a inventarsi funzioni patologiche): assegni dei valori alla variabile, trovi il risultato, metti tutto su un piano cartesiano, ed ecco la curva”.

“Fin qua direi che ci siamo, sono le cose che si fanno a scuola”.

“Sì. Ora, se di variabili ne hai due, devi scegliere due valori, darli in pasto alla funzione e ottenere il risultato. I due valori li scegli su un piano, e il risultato lo puoi visualizzare come un'altezza. Insomma, una funzione in due variabili puoi immaginartela come una superficie, un lenzuolo lanciato per aria che sta per adagiarsi sul letto”.

“Uh, che immagine”.

“O, se vogliamo, una montagna”.

“Ah”.

“Ora Cauchy dice: supponiamo di essere sempre al di sopra del livello del mare, tranne che in un punto in cui arriviamo a quota zero”.

“Quel punto è la soluzione dell'equazione”.

“Esatto. Come facciamo a trovarlo?”.

“Se non sappiamo risolvere le equazioni, non saprei”.

“Facciamo come i fiumi di Dante: facciamo scorrere dell'acqua, e vediamo dove va a finire”.

“Ma dai”.

“Certo. C'è un modo semplice per calcolare la direzione di massima pendenza, che i Veri Matematici chiamano gradiente: punto per punto il gradiente è un vettore che ci indica la direzione di massima discesa (o salita, dipende dal segno che si sceglie). Seguendo le indicazioni date dal gradiente, siamo in grado di arrivare in fondo e di trovare dove la montagna arriva al livello del mare”.

“Cioè sappiamo risolvere l'equazione”.

“Esatto. Anche se bisogna sistemare un po' di cose: che succede se, invece di arrivare al mare, finiamo sul fondo di un laghetto di montagna?”.

“Uh, non va mica bene”.

“Eh, no. La soluzione consiste nello spostarsi un po' e continuare a provare a scendere. Questo metodo si chiama proprio metodo della discesa del gradiente: è come guardare una carta geografica e scendere perpendicolarmente alle isoipse”.

“Hai detto questa frase solo perché volevi dire isoipse, vero?”.

“Lo confesso. Avrei voluto dire Qual è il geometra che scende il gradiente, ma mi sembrava irrispettoso”.

mercoledì 11 gennaio 2023

Inferno, canto XIII

“Siamo al canto tredicesimo, quello di Pier della Vigna”.

“Uh, triste argomento, i suicidi”.

“Già. Non c'è molta scienza, questa volta, ma c'è molta retorica”.

“Che a noi non interessa”.

“Potrebbe interessarci, invece. Ma prima sottolineiamo l'unica osservazione sperimentale che fa Dante, che è questa:”.

Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via,

sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme.

“Cosa succede qui?”.

“Succede che a Dante sembra di sentire dei lamenti ma non capisce da dove vengano, e allora Virgilio gli consiglia di strappare un ramoscello, così si chiariranno tutti i dubbi”.

“E Dante strappa il ramoscello?”.

“Sì, solo che qui i cespugli sono le anime dei dannati, e strappare un ramoscello provoca loro dolore”.

“Ma santo cielo”.

“Eh. Quindi Dante strappa il ramoscello, e osserva che sta succedendo qualcosa di simile a quando si mette un pezzo di legno verde in un fuoco, in modo che uno solo dei due estremi del pezzo sia tra le fiamme. Dall'altro estremo dopo poco cominciano a uscire acqua e vapore, a volte con un fischio”.

“Ah, vero, il fuoco trasforma i liquidi ancora contenuti nel ramo in vapore, e la pressione li fa uscire”.

“Esatto. In questo caso dal ramoscello rotto escono parole e sangue”.

“Ma povere anime”.

“E qui finisce l'osservazione scientifica. Poi ci sarebbe un altro aspetto, anche se non è molto chiaro”.

“Cioè?”.

“L'anima a cui Dante ha strappato un ramoscello si presenta con queste parole:”.

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,

che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi:
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.

“E chi è, quindi? Colui che tenne entrambe le chiavi del cuore di Federico?”.

“Chi parla è Pier della Vigna, segretario dell'imperatore Federico II di Svevia. Lui conservava entrambe le chiavi del cuore di Federico, appunto”.

“Ma cosa significa? Due chiavi? Del cuore?”.

“Questo è il mio dubbio, infatti. Ho trovato scritto in un solo sito che qui Dante fa riferimento a forzieri sofisticati che avevano una serratura che doveva essere aperta con una chiave e chiusa con un'altra, ma non so se sia vero, non ho trovato altri riferimenti a riguardo. Mi dicono che forse si riferisce a forzieri che avevano una chiave che serviva per il deposito, e non per il prelievo, e una seconda chiave che serviva solo per prelevare, un po' come le casse continue delle banche di oggi. Ma, ancora una volta, non ho riferimenti certi. Se fosse così, sarebbe molto bello”.

“Perché?”.

“Perché ricorda un meccanismo usato nelle attuali reti informatiche”.

“Ah”.

“Io devo mandarti uno scrigno contenente un documento segreto, e non voglio che nessuno lo legga”.

“Metti un lucchetto”.

“Ma poi a te serve la chiave”.

“E allora mandamela”.

“Ma se la rubano?”.

“Mettila dentro a uno scrigno… oh”.

“Non funziona, come vedi. O ci vediamo di persona e ti passo la chiave, oppure questo sistema è poco sicuro”.

“Vediamoci di persona, allora”.

“E se non potessimo? Tu vai di persona presso tutte le sedi fisiche alle quali farai prelevare soldi dalla tua carta di credito?”.

“Eh, no”.

“Ma non tutto è perduto: io metto il documento dentro allo scrigno e lo chiudo col mio lucchetto, di cui solo io possiedo la chiave, e poi ti mando tutto”.

“Ma così non riesco ad aprirlo”.

“No, tu al momento non vuoi aprirlo, anzi. Accanto al mio lucchetto, ce ne metti uno anche tu, di cui questa volta tu hai la chiave”.

“E poi?”.

“E poi mi rimandi lo scrigno”.

“E cosa te ne fai, ora che ha due lucchetti?”.

“Ora tolgo io mio lucchetto, e ti rimando il tutto”.

“Ah! Geniale! C'è ancora il mio lucchetto, quindi nessuno può sbirciare il documento segreto. Poi io lo tolgo e, finalmente, posso leggere quello che voglio. Ma questo metodo esiste davvero?”.

Certo”.

“Che meraviglia”.

“Chissà se Dante quando parlava di entrambe le chiavi parlava di un vero scrigno con due chiavi. Comunque, questo è quello che mi è venuto in mente. Per concludere, poi, c'è un terzo aspetto interessante di questo canto”.

“Quale? La retorica?”.

“Sì, ci sono alcune figure retoriche che sfruttano un po' di matematica, o di geometria”.

“Ma dai”.

“Ci vuole un po' di fantasia, ma non solo ai matematici piacciono le simmetrie, per esempio”.

“Ci sono figure retoriche che hanno a che fare con le simmetrie?”.

“Sì, per esempio quando Pier della Vigna chiede un po' di rispetto a Dante, spiega che le anime in questa parte dell'Inferno sono state tramutate in cespugli, così:”.

Uomini fummo, e or siam fatti sterpi

“E questa è una figura retorica?”.

“Un chiasmo: nella prima parte ci sono due termini, uomini e fummo, e nella seconda parte ci sono altri due termini simmetrici di questi due, cioè con i ruoli invertiti, che sono fatti e sterpi. Lo schema qui è sostantivo-verbo seguito da verbo-sostantivo. Potremmo dire SVVS, una sigla palindroma”.

“Benissimo”.

“E ai matematici le simmetrie piacciono, perché permettono di risparmiare un po' di fatica”.

“Capirai”.

“Poco prima, Dante dice”.

Cred’io ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi
da gente che per noi si nascondesse

“Io credevo che lui credesse che io credessi? Si diverte, Dante”.

“Vero? Gioca coi suoni, li ripete. Scopro anche che questa figura si chiama polipototo: una parola ripetuta, mutando il genere o il caso”.

“E anche questo piace ai matematici?”.

“Se le parole fossero ripetute identiche a sé stesse, in matematica si parlerebbe di periodicità. Qui ci sono delle modifiche, delle perturbazioni, direbbero i matematici”.

“Esistono anche le perturbazioni matematiche?”.

“Certo. Si parte da una cosa nota, facile da studiare, e la si modifica un pochino in modo da non distruggerne la struttura, e si cercano le proprietà che non variano. Ma questa l'ho citata soltanto perché mi piace molto il verso Cred’io ch’ei credette ch’io credesse”.

“Eh eh”.

“C'è anche un'altra ripetizione, un altro poliptoto, qui:”.

La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,

infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.

“Un sacco di fiamme. Ma chi è questa meretrice?”.

“Sta parlando dell'invidia, che non distolse mai gli occhi disonesti dalla reggia dell'imperatore. L'invidia è morte di tutti e vizio delle corti (anzi, morte di tutti e delle corti vizio - un altro chiasmo, oserei dire), e infiammò gli animi di tutti quanti contro di me (cioè contro Pier della Vigna), e a loro volta essi infiammarono l'imperatore, tanto che i miei onori si trasformarono in tristi lutti. Insomma, Pier della Vigna è caduto in disgrazia a causa dell'odio dei cortigiani”.

“Un po' come certe comari di un paesino”.

“Esatto. Ma tutto questo canto è pieno di figure retoriche, perché Pier della Vigna si meritava un registro elevato. Subito dopo questi versi, infatti Pier della Vigna spiega di aver cercato di sfuggire il disonore con la morte, e questo fatto lo ha reso ingiusto contro sé stesso:”.

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

“Un altro chiasmo”.

“Esatto. Dopodiché Dante incontra due scialacquatori, Lano da Siena e Iacopo da Sant'Andrea. Ecco come li introduce:”.

Noi eravamo ancora al tronco attesi,
credendo ch’altro ne volesse dire,
quando noi fummo d’un romor sorpresi,

similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
ch’ode le bestie, e le frasche stormire.

Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogni rosta.

“Uh, quanti versi”.

“E guarda tutte quelle ripetizioni, guarda quante s-t: ”.

“Esse ti?”.

similemente, sente, posta, bestie, frasche, stormire, sinistra costa, sì forte, selva, rosta”.

“Ah, capito”.

“E insomma, anche se non è esattamente periodicità in senso matematico, potremmo dire che è quasi periodicità”.

“E non dirmi che i matematici sono riusciti a dare un significato a una quasi proprietà?”.

Ovviamente”.

“Ci rinuncio. Anzi, cado come corpo morto cade.”.