Esattamente venticinque anni fa sono entrato per la prima volta in classe in qualità di
colui che sta seduto dall'altra parte della cattedra. Non era il lavoro che avrei voluto fare nella vita.
Ero uno bravo all'università: mi piaceva studiare matematica, anche se le materie algebriche mi davano più difficoltà (gli unici due 28 del mio curriculum: algebra e topologia algebrica); mi piaceva l'ambiente, volevo diventare prof universitario.
Buongiorno, mi chiamo Roberto Zanasi, mi mancano due esami alla fine, vorrei dare la tesi con lei, vorrei farla sui frattali: così mi presento al mio futuro relatore. Lui mi guarda, dice beh, di solito non sono gli studenti che decidono l'argomento, io non studio direttamente i frattali, però studio argomenti molto vicini a quello che le interessa. Ma che media ha? Eh, rispondo, ho preso due 28, gli altri sono trenta e trenta e lode. Ok, tenga, si guardi questo libro e poi ne riparliamo. Il libro parlava di caos e di attrattori strani. Io avevo ancora in mente, come se l'avessi letto il giorno prima, un articolo su Le Scienze, scritto da un tale Hofstadter, che parlava di misteriosi oggetti matematici chiamati
strani attrattori (traduttori traditori, già: la traduzione di
strange attractors era forse ancora poco diffusa; l'articolo originale era del novembre 1981, in Italia sarà uscito qualche mese dopo). Mi sono detto subito: beh, è inutile che io legga il libro, questi attrattori strani sono un sogno che si realizza, figuriamoci se posso cambiare idea.
E infatti torno dal professore e gli dico ok. E lui risponde si sbrighi a finire gli esami.
Avevo tenuto il più bello per ultimo:
meccanica superiore. Avevo tenuto il più brutto per penultimo:
teoria dei numeri. Con la testa piena di attrattori strani e di estate che si avvicina vado all'appello di teoria dei numeri e mi accorgo di non sapere molto. Il prof mi prende da parte e mi dice senti, vedi tu, forse è meglio se torni. Io ci rimango un po' male, ma in effetti ha ragione, non ho capito alcuni argomenti. Rimango lì in aula a sedere un po', l'occhio spento e il viso di cemento, e mentre guardo qualche altro esame viene da me l'assistente e mi fa beh, ma cosa è successo? E io rispondo che semplicemente non avevo studiato abbastanza. Poi il prof torna e mi dice che il voto sarebbe stato un venticinque, ma secondo lui non era bello rovinare il libretto. Si avvicina qualche compagno di corso e mi chiede oh, allora, cosa t'ha detto? Ma niente, rispondo, dice che il voto sarebbe stato venticinque, non voleva rovinarmi la media, al che vedo facce strane nei volti di chi ho di fronte e tergiverso.
Studio di più, passa l'estate, torno a dare l'esame, porto a casa un trenta e lode, maledetto quasicorpo associativo non planare, ti ho capito. Poi arriva meccanica superiore, studio con piacere, concludo con un trenta e lode, vado dal prof della tesi, buongiorno, ho dato l'ultimo esame, son pronto.
Ottobre 1989. Entro al centro di calcolo dell'università e ho un account su un supercomputer (che, probabilmente, aveva meno capacità di calcolo del mio attuale cellulare), devo studiare dei sistemi di equazioni differenziali, fare grafici, capire cose. Mi piace programmare, riesco bene a fare quello che devo fare, tutto procede bene. Ottengo una borsa di studio per laureandi, il 4 luglio 1990 mi laureo, al rinfresco post laurea fatto all'università sono presenti anche i miei genitori, che fanno conoscenza col mio relatore, che dice tutto bene, tra un po' di tempo ci sarà posto per assumerlo (se vi state dicendo che l'università assume per concorso pubblico, e allora come faceva a sapere che mi avrebbero assunto? rispondo: ah ah). Passa il tempo, scriviamo un articolo, arrivano altri laureandi, il laureato che lavorava con me viene assunto e diventa ricercatore, ottengo un'altra borsa di studio, passa il 1990, io faccio quello che devo fare, sono molto rapido, e mi prendo qualche libertà. Si avvicina la fine della borsa di studio e all'orizzonte non se ne vedono altre, nel frattempo decido di sposarmi, e mi chiedo come fare per raggranellare qualche soldino. Si potrebbero fare supplenze nella scuola (era un periodo in cui chiamavano anche gli studenti, figuriamoci i laureati), ma il prof dice no, tu devi essere qua sempre dalla mattina alla sera, come faccio io.
Penso, penso, e decido di accettare qualche ora di supplenza: così mi compro la lavatrice. Vorrà dire che starò all'università un po' di più al pomeriggio, tanto lo dicono tutti che sono molto efficiente.
10 dicembre 1991: entro a scuola. La prima persona che si incontra entrando in una scuola è sempre un bidello: Scusa, tu, ehi? Dov'è che vai? Non puoi girare per la scuola. Ecco, io, ehm, devo fare una supplenza, e… Oh! Mi scusi, professore, è così giovane, non volevo, mi dispiace, vada, vada. Non si preoccupi, sa dirmi dov'è la segreteria? E la sala insegnanti?
Prendo il registro, mi dicono che il prof che devo sostituire (che guarda caso si ammala sempre nelle due settimane prima della vigilia di Natale (e che incontrerò nuovamente come docente di un corso abilitante (e che non conosce il termine "orientazione", erano in due in commissione e non sono stati capaci di cercarlo su un dizionario, mah))) ha preparato una verifica. Tiro fuori il testo dal registro, lo guardo, si avvicinano due colleghi (colleghi!), mi guardano, guardano il foglio, mi chiedono chi sono, rispondo, mi chiedono da che scuola vengo, rispondo ma veramente questa è la prima scuola, non ho mai fatto supplenze prima, sorridono, ah! la prima! bene! anche noi insegniamo matematica, hai bisogno d'aiuto?, ah, devi fare una verifica di goniometria, eh, questo si risolve così, questo colà, se hai bisogno chiedi pure eh, auguri, bene, bene.
Entro in classe e, oh, bastano poche ore per farmi scoprire quanto mi piace parlare di matematica. Certo, ci sono alcuni aggiustamenti da fare (prof, scusi, mentre lei ha dimostrato tutto il teorema della corda io stavo disegnando la circonferenza, non è che potrebbe rispiegare? un pochino più lentamente, magari?), ma è un bel mondo.
La borsa di studio che mi permette di rimanere all'università sta per scadere, il 31 gennaio è l'ultimo giorno. Stiamo lavorando a un secondo articolo scientifico da pubblicare, io provo a chiedere al mio prof ma allora, ci sarà un concorso? cosa faccio? mi preparo? e lui risponde adesso pensiamo a finire l'articolo. Va bene, arriva il primo giorno di febbraio, io continuo a lavorare, facciamo un po' di rifiniture, gli ultimi grafici, passa circa una settimana, e finalmente stampo l'ultima figura. Salgo in ufficio dal prof a portarla, contento. Entra, mi dice, bene, bene, questa figura è ottima. Allora, chiudi la porta, per piacere, siediti. Ho deciso di interrompere la nostra collaborazione.
Gelo lungo la schiena e volto rovente.
Segue qualche spiegazione, riferimenti al fatto che ho malauguratamente deciso di accettare supplenze, al fatto che non ero sempre il primo ad arrivare e l'ultimo a andare via, piccolezze rispetto a quello che mi ha detto dopo e che mi ha ferito di più: non hai abbastanza fantasia. C'è qualcosa che posso fare per rimediare a tutto questo?, domando. No. Così, secco. No. Mi scuso solo per una cosa, aggiunge: averti fatto lavorare durante questa settimana in cui la tua borsa di studio era già scaduta.
Vado a casa, entro, mi siedo sul divano, c'erano i miei in casa, dico: il prof mi ha dato il benservito. Spiego quello che è successo, l'atmosfera è abbastanza cupa, mi alzo, vado in camera mia, mi siedo sul mio letto, il cane che avevo all'epoca salta su, lo prendo in braccio e piango.
Entra la mamma, mi consola, entra il babbo, parliamo un po', adesso cosa farai? Ci sono sempre le supplenze, rispondo, devo dire che non mi dispiace farle, anzi è molto bello, per alcuni aspetti meglio che entrare in un centro di calcolo e stare sempre davanti a uno schermo, però… Però? Eh, rispondo, mi sembra di vivere nella storia della volpe e l'uva, come farò a sapere se davvero sarebbe stato peggio rimanere all'università, adesso che non ho scelta? Eh.
E, insomma, eccomi qua. Alla fine ho fatto l'insegnante, mi sono sposato, sono andato di ruolo nel 2000, mi è stato chiesto di fare esercitazioni per l'università e, quindi, all'università sono tornato davvero in qualità di insegnante. Certo, non come professore universitario: niente ricerca, solo didattica, qualche ora ogni tanto, mica tutti gli anni. La ragazza che ha dato la tesi col mio prof quando io lavoravo con la borsa di studio ha vinto il concorso, ha preso il "mio" posto (e non discuto sul merito, eh), si è sposata con l'altro ricercatore, quello che lavorava con me, io ho incontrato dopo molti anni il suddetto prof che ha anche avuto il coraggio di chiedermi se mi piaceva fare esercitazioni all'università, ho risposto sì, ha detto bene.
Per vari anni continuo a sognare di essere di nuovo all'università a lavorare ai miei attrattori strani. Ma comincio anche a incontrare ex studenti, che mi raccontano di quello che fanno, che si ricordano di me, che mi ringraziano. E allora mi dico che va bene così, che puoi pensare che tutto succeda per caso, e allora non puoi farci niente, e magari l'uva era davvero acerba, oppure puoi pensare che tutto accada per una ragione, e quindi va davvero bene così, e che quello non sarà mica stato l'unico grappolo d'uva esistente nell'universo. Hai imparato a fare una cosa, e a farla bene: goditela. Tutto andrà bene, alla fine. E se non va bene, non è la fine.