mercoledì 31 dicembre 2014

Caccia al tesoro

“Ora siamo pronti per risolvere il problema del tesoro nascosto”.

“Oh, finalmente!”.

“Ti ricordo il quesito: parti dalla forca, vai verso l'albero A contando i passi, gira a sinistra, percorri lo stesso numero di passi e trova il punto C. Torna alla forca, vai verso l'albero B contando i passi, gira a destra, percorri lo stesso numero di passi e trova il punto D. Il tesoro è a metà tra C e D”.

“Ma non sappiamo dove sia la forca”.

“Esatto”.

“Come facciamo?”.

“Facciamo come fanno i Veri Matematici: mettiamo la forca in un generico punto del piano”.

“Ma se non sappiamo dov'è?”.

“Per questo è generico, no?”.

“Uhm”.

“Usando i numeri complessi, la posizione della forca è identificata dal numero complesso Γ”.

“Perché proprio una gamma maiuscola?”.

“Perché ha la forma di una forca”.

“…”.

“Non mi puntinare[1], anche Gamow nel suo libro fa così”.

“Spiritosissimo”.

“Vedo che non cogli l'umorismo da Vero Matematico. Comunque, eccoti un disegno in cui la forca è messa in un punto scelto assolutamente a caso del piano”.



“E quindi anche l'origine è in un punto casuale, no?”.

“Certo. Fissata l'origine, automaticamente i punti A e B diventano numeri complessi”.

“E adesso?”.

“Adesso usiamo un altro aspetto dei numeri complessi, quello vettoriale. Camminare verso l'albero A significa sommare un determinato vettore”.

“Sommare a cosa?”.

“Al vettore che corrisponde alla forca, naturalmente”.

“Quindi anche Γ viene visto in due modi diversi: punto e vettore?”.

“Esattamente. Ora la domanda: come possiamo indicare il vettore che va dalla forca all'albero A?”.

“Boh, è importante il nome che gli diamo?”.

“Non ti stavo chiedendo di scegliere un nome: il fatto è che in base ai dati che già abbiamo, quel vettore è univocamente determinato”.

“Ah sì? E quanto vale?”.

“Vale semplicemente − Γ”.

“La differenza tra i due? E perché?”.

“Pensaci un attimo: se parti dall'origine, sommi Γ e poi sommi − Γ, cosa ottieni?”.

“Se faccio i conti algebricamente, Γ si semplifica e rimane A”.

“Perfetto, geometricamente è la stessa cosa, eccoti un disegnino”.



“Ah, ora è chiaro! Però ancora non vedo la soluzione”.

“Aspetta… adesso dobbiamo voltare a sinistra di 90 gradi”.

“Come facciamo?”.

“Utilizziamo il terzo aspetto dei numeri complessi, quello legato alle rotazioni e alle dilatazioni dei vettori”.

“Ehm, so che ruotare e dilatare significa moltiplicare per un numero complesso, ma come si fa qui?”.

“Prova a descrivere il vettore che va dall'albero A al punto C”.

“È uguale a quello che va dalla forca verso A”.

“No, attenzione: è uguale solo come lunghezza”.

“Ah, vero. È anche ruotato a sinistra di 90 gradi”.

“Ricordi come si fa a ruotare di 90 gradi un vettore senza cambiarne la lunghezza?”.

“Lo si moltiplica per il numero i”.

“Perfetto: il vettore che va dall'albero A al punto C è quindi uguale a i(− Γ)”.

“Ah”.

“E quindi la posizione del punto C è data dalla somma di tre vettori: Γ + (− Γ) + i(− Γ)”.



“Va bene. Come trovo il tesoro?”.

“Aspetta ancora un momento: ora rifacciamo la stessa costruzione dall'altra parte, andando verso l'albero B e poi il punto D. Anzi, prova tu”.

“Uh, allora, vediamo… se indico con B−Γ il vettore che va dalla forca a B, allora la posizione del punto B sarà data da Γ+(B−Γ)”.

“Giusto”.

“Ora devo voltare a destra di 90 gradi, e se ben ricordo il numero complesso che ruota i vettori in questo modo è −i”.

“Ricordi bene”.

“Quindi il vettore che va dall'albero B al punto D è − i(− Γ)”.

“Giusto. Quindi il punto D sarà uguale a…?”.

“Sarà Γ + (− Γ) − i(− Γ)”.



“Bene. Ora che conosciamo i punti C e D, possiamo trovare il punto medio del segmento che li congiunge”.

“Come si fa?”.

“Si fa semplicemente la media dei due numeri complessi”.

“Uh? Il punto medio è la media? Così facile?”.

“Sì, anche questo fa parte della magia dei numeri complessi. Guarda, questa figura dovrebbe farti capire perché il punto medio si trova facendo la media”.



“Ah, certo! x+y è la diagonale del parallelogramma, se ne prendo metà arrivo proprio nel punto medio”.

“Esattamente. Quindi puoi calcolare la posizione del tesoro”.

“Allora, scrivo tutte le operazioni: devo prendere il primo punto, sommare il secondo, e dividere tutto per due… ecco, questa è l'espressione”.

[Γ+(A−Γ)+i(A−Γ)+Γ+(B−Γ)−i(B−Γ)]/2

“Perfetto: fai i conti adesso”.

“Vediamo… si semplifica un po' di roba… rimane (B)/2 + i(− B)/2, ho separato la parte reale da quella immaginaria, come facevi tu tempo fa”.



“Bene, ma non hai fatto quello che pensi: A e B non sono numeri reali, ma sono complessi, quindi in realtà non hai separato le due parti”.

“Ah. Non va bene allora?”.

“No, no, va bene così, poi ragioniamo sopra a quell'espressione. Però, prima di farlo, hai notato come è fatto il risultato?”.

“Boh, non noto niente di particolare. C'è una certa simmetria nella formula, però… ehi! Manca Γ!”.

“Oh, bene! Manca Γ, questo significa che non è importante conoscere la posizione della forca: il tesoro puoi trovarlo ugualmente, ti basta conoscere soltanto le posizioni dei due alberi A e B”.

“Ah, ecco! Allora posso scegliere di mettere la forca dove voglio e fare tutti i calcoli in base a quella posizione”.

“Esatto. Ora ti propongo un metodo, che è anche quello scelto da Gamow per spiegare la soluzione”.

“Ti ascolto”.

“Prima di tutto, devi renderti conto che non solo possiamo scegliere la posizione della forca arbitrariamente, ma possiamo anche orientare gli assi di riferimento come ci pare”.

“Ah, sì, questo è vero”.

“E anche la scala che usiamo sugli assi può essere scelta a piacere”.

“Giusto anche questo”.

“Quindi scegliamo il riferimento in modo tale che i due alberi A e B si trovino in corrispondenza dei numeri reali +1 e −1”.

“Ah”.

“Ora la posizione del tesoro, che tu hai trovato essere (B)/2 + i(− B)/2, può essere calcolata molto facilmente: basta sostituire al posto di A e di B i due numeri +1 e −1”.

“Molto facile, quell'espressione diventa… semplicemente i. Possibile?”.

“Certo, tutto giusto. Nel sistema di riferimento in cui A e B sono i due numeri reali +1 e −1, il tesoro si trova nella posizione occupata dal numero i. Con questa scelta di sistema di riferimento, il risultato che hai ottenuto tu è effettivamente suddiviso in parte reale e parte immaginaria”.



“Facilissimo. Se non sbaglio, questo corrisponde a mettere la forca nell'origine, no?”.

“Certamente, e in un attimo si trova il tesoro. Vedi che la matematica è utile?”.

“…”.

lunedì 22 dicembre 2014

Tre aspetti complessi

“L'altra volta hai detto che i numeri complessi sono visualizzabili come punti del piano, poi hai anche parlato di vettori”.

“Giusto”.

“Ma quindi sono punti o vettori?”.

“Sono numeri, che possono essere visti in entrambi i modi. Anzi, volendo essere precisi puoi usare i numeri complessi in tre modi diversi”.

“Addirittura tre?”.

“Già. E ti propongo una strada insolita per esplorare questi tre aspetti, che è in un certo senso la strada inversa rispetto a quella che hai percorso a scuola…”.

“Non c'è problema che io mi confonda, eh”.

“Mh. Va bene, diciamo che è l'inversa rispetto a quella che si percorre di solito nelle scuole”.

“Diciamo così”.

“E che però è analoga a quella che ha portato alla scoperta dei quaternioni”.

“Ah”.

“E che parte dal concetto di quoziente tra due vettori”.

“Ecco, io so fare il quoziente tra due numeri. Cosa significa farlo tra due vettori?”.

“Dimmi prima cosa significa farlo tra due numeri”.

“Eh, significa trovare un numero che, moltiplicato per il divisore, mi dia il dividendo”.

“Bene. Se generalizziamo un pochino ai vettori, le cose non cambiano di molto”.

“In che senso?”.

“Cosa significa moltiplicare un vettore per due?”.

“Significa farlo lungo il doppio”.

“E cosa mi dici della sua direzione e del suo verso?”.

“Quelli non cambiano”.

“Benissimo. Possiamo allora dire che il rapporto tra il vettore 2v e v è uguale a 2”.

“Fin qua sono d'accordo”.

“Ora, che significato possiamo dare al rapporto tra due vettori che non hanno la stessa direzione?”.

“Boh? Servirebbe un numero che modifica sia la lunghezza che la direzione del vettore divisore in modo da dare come risultato il dividendo”.

“Esatto”.

“Ma non esiste un numero di questo tipo! Se moltiplichiamo per un numero reale un vettore, lo possiamo allungare, accorciare, se vuoi ruotare di 180 gradi, ma non di più”.

“Bene, vorrà dire che dobbiamo definire dei nuovi numeri, che ci permettano di ruotare di quanti gradi vogliamo”.

“Ah. Ma come fa un numero a modificare due caratteristiche, la lunghezza e la direzione? Un numero è un numero!”.

“Questi nuovi numeri saranno composti da due parti, una che interagisce con la lunghezza e un'altra che invece interviene sulla direzione”.

“Un numero composto da due parti?”.

“Sì, una coppia di valori: il primo serve per modificare la lunghezza del vettore, il secondo per l'angolo. Insomma, dato il vettore v di lunghezza a e formante un angolo α con il semiasse positivo delle ascisse, e il nuovo numero (r,θ)…”.

“…che chiamiamo numero complesso?”.

“Esatto. Dicevo, la moltiplicazione tra v e (r,θ) produce come risultato un vettore di lunghezza ar e formante un angolo α + θ”.



“Mh. E però non mi sembra che ci sia molta differenza tra il concetto di vettore e quello di numero complesso. Voglio dire, entrambi sono composti da due valori, che in entrambi i casi sono un numero e un angolo, no?”.

“Perfetto. Anche il numero (r,θ) può essere visto come vettore. All'inizio ti avevo detto che i numeri complessi possiamo vederli in tre modi diversi, ti ricordi?”.

“Sì”.

“Eccoli qua, i tre modi: i numeri complessi sono punti del piano, ma sono anche vettori, e sono pure quozienti”.

“E questa confusione è utile?”.

“Certo, e non è una confusione. È una specie di magia, le cose funzionano benissimo, tutto combacia, si ha proprio la sensazione che sia giusto così”.

“Uhm”.

“Guarda, ti faccio qualche esempio. Cosa vuol dire sommare due numeri complessi? Se li vedi come vettori, è semplicissimo: metti le frecce una dietro l'altra”.

“Uh, questa è la somma di vettori che avevo imparato a scuola”.

“Esatto. In figura vedi l'operazione (2 + i) + (1 + 3i)”.



“Che dà come risultato (3 + 4i), mi sembra semplice. La moltiplicazione, invece?”.

“Se vuoi moltiplicare per un numero complesso, devi pensare a quello che abbiamo detto prima sui quozienti. Un numero complesso è un oggetto in grado di modificare la lunghezza di un vettore e anche la sua direzione”.

“E quindi non è così semplice da disegnare come la somma”.

“Eh, no. Uno dei due vettori lo devi disegnare, dell'altro invece devi prendere la lunghezza, che serve per modificare la lunghezza del primo…”.

“Moltiplicando le due lunghezze”.

“Esatto. E poi devi prendere l'angolo che forma con il semiasse positivo delle ascisse, che serve per modificare l'angolo del primo…”.

“Sommando i due angoli”.

“È così. Non è semplice vedere il risultato di una moltiplicazione a occhio, però c'è un caso particolare che è facile da visualizzare. Prova a pensare all'effetto che fa il numero i quando lo usi in una moltiplicazione”.

“E come faccio?”.

“Ricordi quello che abbiamo detto l'altra volta? Abbiamo definito i proprio come quel numero che ruota di 90 gradi in senso antiorario un vettore”.

“Uhm, è vero”.

“Allora, ecco i tre aspetti del numero i: primo, è un punto del piano”.

“E dove si trova?”.

“Dato che lo puoi scrivere come 0 + i, si trova in corrispondenza del punto (0,1)”.



“E va bene. Ma è anche un vettore, no?”.

“Certo, eccolo qua”.

“Un vettore che punta verso l'alto”.

“Un vettore di lunghezza unitaria che forma un angolo di 90 gradi con la direzione positiva dell'asse delle ascisse”.

“Perché lo descrivi in questo modo da Vero Matematico Precisino?”.

“Bé, prima di tutto perché tutti i Veri Matematici sono Precisini, e poi perché la magia viene da qua: la regola della moltiplicazione dice che devi moltiplicare le lunghezze e sommare gli angoli. Il numero i ha lunghezza 1, quindi moltiplicare un qualsiasi vettore per i non fa cambiare la lunghezza. Però cambia la direzione, perché l'angolo che il vettore i forma con la direzione positiva dell'asse delle ascisse si somma all'angolo del vettore che stai moltiplicando”.

“In sostanza i è un oggetto che ruota i vettori di 90 gradi in senso antiorario, e non ne modifica la lunghezza”.

“Esatto, l'abbiamo definito così”.

“Non saprei come rappresentare questo fatto, però”.

“Non rappresenti direttamente i, questa volta, ma rappresenti un vettore v qualsiasi, e il vettore iv”.

“E come?”.

“Così”.

“Ah, ma certo! Il vettore iv è il vettore v ruotato di 90 gradi!”.

“In senso antiorario, certo. Ora riassumiamo quello che abbiamo detto”.

“Benissimo”.

“Un numero complesso è un punto del piano, identificabile da due coordinate (a,b). Allo stesso modo è un vettore, identificabile dalla sua componente lungo l'asse orizzontale e quella lungo l'asse verticale, che sono sempre a e b”.

“Ok”.

“I Veri Matematici dicono che (a,b) è la forma cartesiana del vettore, o del numero”.

“Come le coordinate cartesiane, no?”.

“Esatto. Ma, come vettore, un numero complesso è altrettanto identificabile da altri due numeri (r,θ): la sua lunghezza e l'angolo che forma con la direzione positiva delle ascisse”.

“E i Veri Matematici come chiamano quest'altro modo?”.

“Forma polare”.



“E tutto questo risolve il problema del tesoro del pirata?”.

“Eh, sì. Solo però se sei in grado di ruotare di 90 gradi anche in senso orario”.

“Uh. Devo girare dall'altra parte”.

“Sì. Come fai?”.

“Uso un angolo negativo?”.

“Perfetto. Che numero stai usando?”.

“Eh, in forma polare il numero (1,−90°)”.

“E in forma cartesiana?”.

“Boh?”.

“Prova a disegnarlo”.

“Dovrebbe essere questo”.



“Giusto. Quanto valgono le sue coordinate cartesiane?”.

“Sono (0,−1). Ma allora il punto dovrebbe essere 0−i”.

“Cioè −i, esattamente. Per ruotare in senso antiorario si moltiplica per i, per ruotare in senso orario per −i. E adesso possiamo cercare il tesoro”.

lunedì 15 dicembre 2014

Complesse rotazioni

“Ma quindi come si risolveva il problema del tesoro nascosto? Cosa c'entrano i numeri complessi?”.

“Eh, coi numeri complessi si può risolvere il gioco in modo molto elegante”.

“Ma perché proprio i numeri complessi? Mi sembra un problema di geometria”.

“Certo, e proprio per questo i numeri complessi sono utili”.

“Ma se non c'entrano niente con la geometria!”.

“Qui ti sbagli, c'entrano eccome. Per capire il perché bisogna fare un passo indietro, ai numeri negativi”.

“Tipo −1, −2, −3?”.

“Sì. A dir la verità, ci basta −1. ”.

“Boh, continuo a non capire cosa c'entri la geometria”.

“Prendi un numero qualsiasi, positivo. Per esempio 3”.

“Va bene. Che ci faccio?”.

“Rappresentalo su una retta”.

“E fin qua è facile”.

“Ora moltiplicalo per −1”.

“Diventa −3”.

“Bene, ora ti faccio un disegno”.



“Bè? Cosa vuoi dire? Che c'entra la geometria perché moltiplicando per −1 hai spostato un punto da una parte a quell'altra? Mi sembra banale”.

“Diciamo, più precisamente, che ho ruotato il segmento che va da 0 a 3 e l'ho sovrapposto a quello che va da 0 a −3”.

“Possiamo dire che moltiplicare per −1 è come fare una rotazione di 180 gradi?”.

“In senso antiorario, sì”.

“Volendo anche in senso orario, se giri dall'altra parte ottieni sempre −3”.

“Certo. Siccome dobbiamo decidere un verso, diciamo che scegliamo quello antiorario”.

“Perché dobbiamo decidere?”.

“Perché tra un po' dovremo essere più precisi”.

“Va bene. Ancora non vedo numeri complessi, però”.

“Adesso arrivano, porta pazienza. Fino ad ora abbiamo trasformato una moltiplicazione per un numero particolare in una rotazione”.

“Sì, −1 fa ruotare di 180 gradi”.

“Bene. Ora ci chiediamo: quale numero produrrà una rotazione di 90 gradi?”.

“Cioè metà dell'angolo generato da −1. Mi sembra facile, −1/2”.

“Troppo facile, infatti. Ricordati che l'operazione che ha prodotto la rotazione è una moltiplicazione, e tieni presente che ci piacerebbe mantenere tutte le proprietà delle operazioni. Quindi, se moltiplicare per −1/2 potesse tradursi in una rotazione di 90 gradi, vorrebbe dire che moltiplicare per due volte per −1/2 ci dovrebbe portare a una rotazione di 180 gradi. Ma non è così”.

“Non è così perché moltiplicare due volte per −1/2 significa moltiplicare per 1/4, vero?”.

“Certo”.

“Ma allora dovremmo trovare un numero che moltiplicato per sé stesso due volte sia uguale a −1. Ma non esiste!”.

“Eh”.

“E poi, ora che ci penso, una rotazione di 90 gradi non avrebbe nemmeno senso! Non c'è niente a metà via, se ruoti solo di 90 gradi non ruoti il segmento in modo da sovrapporlo alla retta dei numeri”.

“Molto bene, questo è un altro problema, che in realtà ci fa fare un passo avanti verso la soluzione”.

“Quindi stiamo cercando un numero che non esiste che produce una rotazione di un segmento che rappresenta un numero in una zona in cui non ci sono numeri”.

“Perfetto”.

“Vabbé, mi piacerebbe sapere come i Veri Matematici possano aver risolto questo problema non risolubile”.

“Fanno come il capitano Kirk (l'unico, quello vero) con il test Kobayashi Maru: cambiano le regole”.

“Rimango senza parole”.

“Il numero che moltiplicato per sé stesso due volte dà come risultato −1 non c'è? Bene, lo inventiamo (o lo scopriamo, c'è sempre stato ma non ce ne siamo ancora accorti)”.

“Secondo te c'è sempre stato, naturalmente”.

“Naturalmente”.

“E come se la cavano i Veri Matematici col fatto che ruotando di 90 gradi si arriva in una zona senza numeri?”.

“Semplice: riempiono anche quella zona di numeri”.

“Ovvio, come ho fatto a non pensarci prima?”.

“Definiamo quindi un nuovo numero che chiamiamo i e che ha questa proprietà: ruota i segmenti di 90 gradi in senso antiorario. O, se vogliamo stare fuori dalla geometria, tale che il suo quadrato sia uguale a −1”.

“Un numero che non esiste”.

“Se vuoi. Adesso comunque esiste”.

“E perché proprio i?”.

“Iniziale di immaginario”.

“Mi prendi in giro?”.

“No, no, è proprio così che lo chiamano i Veri Matematici. Questo i è l'unità immaginaria”.

“Come unità? Vuoi dire che ce ne sono altri?”.

“Ovviamente. Cosa ci impedisce di fare + i?”.

“Che farebbe 2i?”.

“Già. O anche + 1”.

“E quanto fa?”.

+ 1”.

“Continuo a pensare che tu mi stia prendendo in giro”.

“No, le cose stanno davvero così. Se ammettiamo l'esistenza di i, e se vogliamo continuare a servirci delle proprietà di cui godono di solito i numeri, dobbiamo anche ammettere l'esistenza di un'infinità di nuovi numeri, formati sommando i vecchi numeri reali con i nuovi numeri immaginari. Qualcosa del tipo + ib, con a e b reali”.

“Bleah. E come li chiamiamo, questi numeri?”.

“Numeri complessi”.

“Ma dai”.

“Non è uno scherzo, si chiamano proprio così. E possiamo anche rappresentarli su un piano in maniera molto facile: il numero + ib corrisponde al punto di coordinate (a,b). Ti faccio notare che in questo modo risolviamo anche il problema di non avere numeri al di fuori della retta: adesso ci possiamo riempire un intero piano. Ma non stiamo a fare la solita trattazione che si fa a scuola e che tu conosci già”.

“Certo, no, non facciamola, so già tutto”.

“Bene”.

“STAVO SCHERZANDO”.

“Ah, eh, ecco. Ma va bene lo stesso, non ci interessa davvero ora ripercorrere tutta la storia. Vorrei concentrarmi su un aspetto, quello delle rotazioni. Usando i numeri complessi possiamo riempire tutto il piano, e possiamo anche definire l'unità immaginaria i in modo alternativo, cioè non come si fa di solito a scuola. Possiamo dire che ogni numero complesso, oltre a essere associato a un punto del piano di coordinate (a,b), è anche associato a un vettore che parte dall'origine e arriva in (a,b)”.

“Fin qua posso essere d'accordo, invece di disegnare un punto posso disegnare tranquillamente una freccia”.



“Bene, quindi hai capito che punti del piano, numeri complessi e vettori sono tre aspetti dello stesso ente”.

“Diciamo di sì”.

“Perfetto, allora i sarebbe quell'unico numero che moltiplicato per un vettore lo fa ruotare di 90 gradi in senso antiorario”.

“Ma come fa un numero a fare ruotare un vettore?”.

“Lo fa così come il numero −1 fa ruotare di 180 gradi un numero reale, cioè un vettore orizzontale”.

“Ma il numero −1 fa ruotare i vettori perché è così che funzionano le operazioni!”.

“Benissimo, e qui noi facciamo il contrario. Definiamo le operazioni tra i numeri complessi in modo tale che funzionino come le rotazioni, e siamo a posto”.

“Ma… ma… ma si può? Ma non è come barare? Davvero i Veri Matematici fanno così?”.

“I Veri Matematici fanno un po' quello che vogliono. Se scoprono che le cose funzionano, sono felici e pubblicano i loro risultati, dopo averli ripuliti e circondati da un'aura di mistero. Se invece le cose non funzionano, buttano via tutto e non dicono niente a nessuno. Storicamente i numeri complessi non sono nati così come ti sto raccontando: hanno avuto un'altra origine. È una storia nota: provando a risolvere le equazioni di terzo grado si è visto che se si usavano questi numeri di cui nessuno conosceva il significato (e di cui molti dubitavano pure l'esistenza), le cose funzionavano meglio. Poi è successo che studiando le operazioni tra i vettori nello spazio altri Veri Matematici hanno scoperto altri numeri, che sono poi stati chiamati quaternioni, che rappresentavano molto bene i rapporti tra vettori nello spazio. Prendere un vettore e moltiplicarlo per un quaternione significa allungarlo o accorciarlo e ruotarlo nello spazio. La cosa meravigliosa è che poi, se si studiano le stesse operazioni tra vettori nel piano, i quaternioni in un certo senso si semplificano e diventano i numeri complessi. E allora, volendo, i numeri complessi si potrebbero ridefinire non seguendo la strada classica, ma come quozienti tra vettori nel piano. In generale, quindi, moltiplicare un vettore per un numero complesso significa allungarlo (o accorciarlo, o anche lasciarlo così com'è, naturalmente) e ruotarlo”.

“Che roba. Ho capito una parola ogni dieci, ma mi sembra di intuire che ci siano due modi diversi per vedere le stesse cose, e questo ti fa andare in brodo di giuggiole, vero?”.

“Sì, lo confesso. Aver studiato i numeri complessi a scuola, dove i era la famosa radice di meno uno, e aver rivisto tutta la loro costruzione a partire dal rapporto tra due vettori, mi ha entusiasmato”.

“Mah. E questi numeri complessi servono poi per risolvere il problema del tesoro?”.

“Anche, sì. Ma prima di farlo, se ti interessa questo modo alternativo di definire i numeri complessi, e se vuoi anche sapere qualcosa anche sui quaternioni, ti consiglio di dare un'occhiata a uno dei libri di Giorgio Goldoni. Fa parte della collana Il professor Apotema insegna…, e si intitola proprio I numeri complessi del piano e dello spazio”.




“Ah, un altro libro della collana, bello!”.

“Sì. La prossima volta parliamo poi del problema del tesoro”.

giovedì 11 dicembre 2014

Il problema del tesoro nascosto di Gamow risolto senza parole

Una vecchia pergamena, che descriveva il posto in cui era sepolto un tesoro di pirati su un'isola deserta, dava le seguenti istruzioni. Sull'isola ci sono solo due alberi, A e B, e i resti di una forca.

Partendo dalla forca contate il numero di passi necessari per raggiungere l'albero A camminando in linea retta. Arrivati all'albero, giratevi di 90 gradi a sinistra e procedete per lo stesso numero di passi. Nel punto in cui vi siete fermati piantate un bastone nel terreno.

Tornate ora alla forca e camminate in linea retta fino all'albero B contando i passi. Raggiunto l'albero, voltatevi di 90 gradi verso destra e procedete per lo stesso numero di passi, piantando un altro bastone nel punto in cui vi fermate. Scavate nel punto che si trova esattamente a metà strada tra i due bastoni e troverete il tesoro.

Un giovane, trovata la pergamena con queste istruzioni, affittò una barca e navigò fino all'isola. Non ebbe difficoltà a trovare i due alberi, ma con suo grande disappunto la forca era scomparsa e il tempo ne aveva fatto sparire ogni traccia. Non conoscendo la posizione della forca, non riuscì a trovare alcun modo per individuare il tesoro e se ne tornò a mani vuote.

Ah, se fosse stato un po' più pratico nel calcolo con i numeri complessi, sarebbe tornato a casa ricco!



(Poi vediamo anche le parole che servono per risolvere, eh)
(Se cliccate sulla forca, potete muoverla)

mercoledì 12 novembre 2014

Matematica e gioco d'azzardo

Ebbene, sono diventato enciclopedico ho scritto, assieme a Spartaco Mencaroni — medico e personaggio più serio del sottoscritto — un e-book dal titolo Matematica e gioco d'azzardo.

L'intento è serio: abbiamo raccontato cosa succede in chi si fa prendere così tanto dal gioco da perdere la testa e trasformare il divertimento in malattia.

La matematica ci fa capire dove siano nascosti gli inganni che ci fanno credere di poter vincere anche quando le probabilità sono nettamente contro di noi. Perché, come diceva un saggio, non esistono cose come i pasti gratis, e nessun ente che gestisce il gioco d'azzardo ha mai proposto una scommessa equa.


Il libro fa parte della collana Altramatematica di 40k unofficial, e costa 1.99 euro. Guardatelo, via.

martedì 4 novembre 2014

Perché il triangolo di Tartaglia funziona

“Tutti quanti abbiamo imparato a sviluppare il binomio di Newton col triangolo di Tartaglia, alle superiori…”.

“…”.

“Cosa c'è?”.

“Ma tutti quanti chi? Se mai l'abbiamo imparato, l'abbiamo dimenticato il giorno dopo”.

“Uff”.

“Che poi non serve a niente”.

“Ma cosa c'entra? Da quando in qua in matematica ci mettiamo a fare cose che servono? Noi facciamo cose che ci piacciono, se poi servono sarà un problema dei fisici, degli ingegneri, di quella gente là insomma”.

“Va bene, va bene, non proseguiamo con questo discorso, mi hai già spiegato varie volte il punto di vista dei Veri Matematici. Cos'è questo binomio di Newton? Perché io l'ho dimenticato davvero, eh”.

“Ah, immagino. Il binomio di Newton sarebbe questa espressione qua: (+ b)n”.

“Tutto qua? E a cosa serve perché ne parliamo?”.

“Bé, ne parliamo perché il suo calcolo ci consente di sviluppare una tecnica che poi sarà utile…”.

“Ah-ha! Allora serve a qualcosa!”.

“La matematica è come il maiale, non si butta via niente: qualcuno studia una cosa perché gli interessa, e nel farlo può scoprire un sacco di altre cose interessanti. Oggi però mi interessava farti vedere perché una cosa che in prima superiore ci è stata presentata senza motivazioni chiare funziona”.

“Ammetto che sapere perché una cosa funziona è bello, sì”.

“Oh, bene. Allora, facciamo finta di non sapere niente e proviamo a calcolare lo sviluppo di quel binomio elevato a una generica potenza n”.

“Benissimo, fare finta di non sapere niente mi riesce molto facile”.

“Se uno dovesse calcolarsi tutta l'espressione, dovrebbe tradurla in questo modo: (+ b)(+ b)(+ b)…(+ b), che è un prodotto in cui la parentesi (+ b) compare n volte”.

“E fin qua mi sembra chiaro. Ma se il numero di parentesi è generico, come facciamo a fare i calcoli?”.

“Proprio questo è il punto. Allora, quel prodotto è composto di termini ottenuti scegliendo, per ogni parentesi, una delle due lettere a oppure b”.

“Mh. In che senso scegliendo?”.

“Quando fai il calcolo davvero, devi scrivere tutti i possibili prodotti che potresti ottenere prendendo a oppure b in ogni parentesi. Meglio se ti faccio vedere un esempio: quando devi calcolare (a  b)3, facendo finta di non ricordarti la regola…”.

“Come dicevo, questo mi riesce facilissimo”.

“Ecco, appunto. Allora è come se tu dovessi svolgere questo calcolo: (+ b)(+ b)(+ b). E come lo fai?”.

“E come lo faccio? Boh, moltiplico le prime due parentesi?”.

“Scegli l'ordine che vuoi, sono tutte uguali”.

“Ah, già. Bene, se moltiplico le prime due parentesi devo moltiplicare a per a, poi a per b, poi b per a, poi b per b”.

“Esattamente: ottieni tutti i possibili monomi composti da una lettera scelta nella prima parentesi, e una nella seconda. Cioè a2, ab, ba, b2”.

“Ma ab e ba sono uguali, no?”.

“Sì, e infatti il risultato è a+ 2ab + b2”.

“Però devo ancora moltiplicare tutto per la terza parentesi (+ b)”.

“Sì, e per farlo devi moltiplicare tutto quello che hai ottenuto poco fa prima per a e poi per b, in modo da avere:”.

  • a3 — ottenuto scegliendo a in tutte e tre le parentesi
  • a2b — ottenuto scegliendo a in due parentesi e b in una
  • ab2 — ottenuto scegliendo a in una parentesi e b in due
  • b3 — ottenuto scegliendo b in tutte e tre le parentesi

“Ok, comincio a capire. Però di termini a3 ne ho uno solo, mentre di termini a2b ne ho di più. Devo fare i conti?”.

“Non adesso: vorrei farli nel caso generale, quando hai n parentesi”.

“E come fai a fare il calcolo se non sai quanto vale n? Già con = 3 mi sembra complicato…”.

“Tutto si basa su questa idea: devi scegliere una lettera tra a oppure b in ognuna delle parentesi. Quali combinazioni puoi avere? Quante sono quelle che si ripetono?”.

“Continua a sembrarmi difficile”.

“Vediamo il problema da un altro punto di vista: abbiamo detto che devi fare, per n volte, una scelta tra due”.

“Questo è chiaro, devo scegliere a oppure b”.

“Traduciamo questa idea in un problema diverso: devi muoverti in un labirinto, in cui ogni stanza ha due porte, una con un cartello che indica a e l'altra con un cartello che indica b”.

“Mh. E come è fatto questo labirinto?”.

“Così:”.



“Una scacchiera girata?”.

“E potenzialmente infinita. Naturalmente noi non andremo avanti all'infinito, ma ci fermeremo dopo n stanze. Si parte dall'alto e si può andare solo verso il basso. Diciamo che se scendi verso sinistra hai scelto la porta a, mentre se scendi verso destra hai scelto la porta b”.

“Ah, ok. E quindi cosa devo fare?”.

“Conti. Quante strade puoi scegliere per andare dalla casella in alto a quella con l'asterisco? Strade minime, eh, cioè senza andare avanti e indietro: puoi solo muoverti verso il basso”.



“Una sola”.

“Ok, quindi scriviamo un 1 in quella casella, per indicare che una sola strada porta lì. Metto un uno anche in quella simmetrica dall'altra parte, ok?”.

“Ok. Mi sembra tutto molto ovvio, ma vai avanti, sono sicuro che complicherai le cose molto velocemente”.



“Eh, adesso si tratta di andare avanti. Quante strade ti portano ora nella casella indicata con l'asterisco?”.

“Mi pare una, no? Devo sempre scendere scegliendo la sinistra, ho un solo modo per farlo”.

“Perfetto. E quanti modi invece per arrivare nella casella centrale, quella con la faccina?”.

“Ecco, boh? Cioè, sono due, ma mi chiedo come fare per calcolarlo quando scenderemo nelle righe di sotto”.

“Sì, il problema è scoprire il come, non il quanto. Ma non è difficile: nella casella in questione ci puoi solo arrivare dalle due caselle superiori, no?”.

“Certo, posso solo scendere andando dalla casella di sinistra verso destra, o da quella di destra verso sinistra”.



“E allora il numero di percorsi che puoi scegliere per arrivare in quella casella dipende solo dal numero di percorsi che potevi scegliere per arrivare nelle due caselle superiori”.

“Avevo un solo modo per arrivare nella casella che sta sopra a destra, un solo modo per arrivare in quella che sta sopra a sinistra, quindi adesso ho due modi!”.

“Semplicemente la somma dei modi per arrivare nelle due caselle superiori”.



“Ma allora è facile riempire le righe! Sotto avrò un solo modo per arrivare nella casella all'estrema sinistra…”.

“…che corrisponde alla scelta di a per tre volte”.

“Esatto. E anche nella casella simmetrica a destra posso mettere un 1, perché corrisponde alla scelta di tre volte b. Del resto queste caselle hanno solo una casella sopra di loro, quindi non devo sommare niente”.

“Molto bene. E per le altre due invece?”.

“Ci sono 3 modi per entrambe, dato che le caselle che stanno sopra di loro contengono un 1 e un 2”.



“Benissimo. Hai problemi a riempire le prossime righe?”.

“Direi proprio di no, eccone un po'”.



“Ottimo. Ora non dimentichiamo quello che stiamo facendo: ci stiamo muovendo in un labirinto e stiamo calcolando in quanti modi possiamo arrivare in ciascuna stanza, e però contemporaneamente stiamo anche risolvendo un problema algebrico, che è quello di contare quanti monomi del tipo arbs abbiamo nello sviluppo del binomio (+ b)n”.

“È vero, me lo stavo già dimenticando”.

“Ecco, appunto. Quindi la risposta è questa: il numero dei monomi che otterrai sarà dato dai coefficienti di un'opportuna riga di questa tabella”.

“Quale riga?”.

“Quella giusta!”.

“Ehm”.

“Quella che corrisponde alla potenza che stai calcolando, tenendo presente che la prima riga, quella con una sola casella, corrisponde a non scegliere niente, cioè alla potenza zero”.

“Ah, giusto, la prima scelta comincio a farla quando decido come scendere dalla prima alla seconda riga”.

“Esattamente. Quindi diciamo che numeriamo le righe di questa tabella a partire da 0, non da 1. E, per finire, mettiamo una cifra 1 anche nella casella più in alto, quella di partenza. Corrisponde alla potenza 0, che se evitiamo casi strani ci dà come risultato 1, appunto”.



“Oh, finalmente la tabella completa”.

“L'ultima riga che hai scritto, ad esempio, ci dice che ci sarà un solo monomio del tipo a5, mentre ce ne saranno 5 del tipo a4b,

“Quel 5 corrisponde ad aver scelto per 4 volte a e per una sola volta b, giusto. Ho capito!”.

“Molto bene. Andando avanti, avrai ancora 10 monomi del tipo a3b2, ancora 10 del tipo a2b3, 5 del tipo ab4, e infine uno solo del tipo b5”.

“Questa tabella avrà un nome, suppongo?”.

“Certo, per noi italiani è il triangolo di Tartaglia, per il resto del mondo è il triangolo di Pascal, tranne che per i cinesi, che lo conoscono come triangolo di Yanghui”.

“Che era un cinese che ha scoperto questo triangolo prima degli altri, immagino”.

“Già”.

“Come per gli spaghetti, insomma”.

“Come per gli spaghetti”.




Grazie a eslr, che sul socialino dell'amore mi ha aiutato un sacco a costruire le immagini. Se le avessi fatte a mano colorando pixel per pixel forse ci avrei messo meno tempo, ma volete mettere?

giovedì 16 ottobre 2014

Ada Lovelace Day

Arrivo con un giorno di ritardo, ma ieri è stato l'Ada Lovelace Day, giornata dedicata alla celebrazione dei successi delle donne nei campi della scienza, della tecnologia, dell'ingegneria e della matematica.

Ricordiamo Ada, la prima programmatrice di computer, con un semplice saluto — ovviamente scritto in Ada.

giovedì 9 ottobre 2014

Il teorema dei quattro cinque colori — la dimostrazione

Dimostriamo il teorema dei cinque colori per induzione. Ovvero: supponiamo che sia possibile colorare come si deve un grafo avente un certo numero di vertici, e facciamo vedere che è possibile colorare anche un grafo avente un vertice in più. Da qui, come in una catena di domino in cui ogni tessera che cade mette in moto una nuova tessera, si deduce che il teorema è vero per ogni grafo.

Quindi: sappiamo che in un qualunque grafo ci deve essere un vertice avente al massimo cinque spigoli che escono da esso. Troviamolo.



Ok, concentriamoci sul vertice blu, immaginiamo che il grafo possa proseguire a partire dai vertici rossi come vuole. Anche se i vertici rossi in questo disegno sono tutti connessi con meno di cinque spigoli, in realtà potrebbero averne molti di più.

Il vertice blu è collegato a meno di cinque vertici, in questo caso quattro.

Bene, se noi rimuoviamo dal grafo il vertice blu, otteniamo un grafo che ha un vertice in meno e, quindi, per ipotesi induttiva, è colorabile con cinque colori. Se aggiungiamo il vertice blu, non ci sono problemi a colorare il tutto: dato che è connesso con solo quattro altri vertici, non sono certamente stati usati tutti i cinque colori. Quindi prendiamo un colore che non abbiamo usato e siamo a posto.

Passiamo al caso difficile: il vertice sul quale abbiamo posto l'attenzione è effettivamente collegato con cinque altri vertici, e abbiamo già usato tutti i cinque colori disponibili.



Scegliamo due colori, per esempio il giallo e il viola, e consideriamo solo i nodi colorati con quei colori, e solo gli spigoli che connettono quei nodi. Può succedere, come in questa figura, che il sottografo contenente solo i due colori sia formato da due o più componenti connesse, separate tra di loro. Ecco qua:


Se le cose stanno così, è facile colorare il grafo con cinque colori: basta invertire i colori di una delle due componenti connesse, e si riesce a liberare un colore da assegnare al vertice nero. Per esempio, se invertiamo i colori della componente in alto, otteniamo questa figura:


Abbiamo liberato il colore viola, che possiamo assegnare al vertice nero, ed ecco fatto.

E se il sottografo che contiene i due colori che abbiamo scelto fosse composto da un'unica componente connessa? Come potremmo fare in questo caso? Vediamo un disegnino:


Se le cose fossero così, dovremmo scegliere altri due colori e ripetere il ragionamento fatto sopra. Domanda: siamo sicuri di trovare una coppia di colori che forma almeno due sottografi sconnessi, come prima? Potrebbe verificarsi il caso in cui ogni coppia di colori che noi scegliamo genera un sottografo avente un'unica componente connessa?

La risposta è no, ma se cercate su internet trovate delle spiegazioni poco convincenti e troppo sbrigative. Dice per esempio wikipedia che se scegliamo altri due colori, per esempio il verde e il blu, allora il sottografo formato solo dai nodi avente quei colori e dagli spigoli che li collegano non può essere composto da un'unica componente connessa, perché si intreccerebbe con il sottografo giallo-viola. Ma non è mica vero, non è difficile immaginare un percorso verde-blu non intrecciato col giallo-viola.

Il fatto è che non è possibile che, comunque noi scegliamo due colori, il sottografo che li contiene sia composto da un'unica componente connessa.

Per dire, se aggiungo un po' di collegamenti posso arrivare a una figura del genere, dove ancora le componenti bicolorate sono tutte connesse:

Posso andare avanti ancora? Posso immaginare che blu e rosso siano collegati tra loro da un'unico cammino bicolorato? Sì, è possibile, ma questo cammino dovrà contenere il nodo verde, oppure tutti gli altri. Se contiene il verde, per esempio, può succedere una cosa del genere:


A questo punto un cammino verde-giallo non potrebbe più essere connesso, perché il verde è all'interno del circuito rosso-blu, mentre il giallo è all'esterno (e questo, attenzione, è il risultato di uno di quei teoremi aventi il rapporto chiarezza enunciato/facilità di dimostrazione elevatissimo: si tratta del teorema della curva di Jordan, che dice che ogni curva chiusa del piano non intrecciata divide il piano stesso in due regioni, una interna e una esterna. Sembra una scemata, ma non è banale per niente).

Quindi, anche in questo caso si riesce a colorare il vertice nero con uno dei cinque colori.

Conclusione: l'induzione funziona, le carte geografiche si possono colorare tutte utilizzando cinque colori al massimo.

Per dimostrare che di colori ne servono quattro servono un computer, tanto tempo a disposizione, e una predisposizione filosofica a fidarsi dell'operato di un programma.

mercoledì 8 ottobre 2014

Il teorema dei quattro cinque colori — un errorino nella dimostrazione

Dicevamo che la seconda più bella formula della matematica afferma che Facce più Vertici uguale a Spigoli più 2. Usando le formule: F + V = S + 2.

Ogni faccia di un grafo planare come quelli di cui ci stiamo occupando (cioè quelli che modellizzano una carta geografica, in cui ogni vertice è collegato al più a uno spigolo) è circondata da almeno 3 spigoli. Insomma, non ci occupiamo di grafi di questo tipo:


Siccome le facce sono almeno triangolari, cioè circondate da almeno tre spigoli, allora 3F sarà minore o uguale al numero totale di spigoli presenti nel grafo, moltiplicato per 2 (questo perché ogni spigolo confina con due facce, quindi viene contato due volte). In formule: 3F ≤ 2S.

Facciamo un po' di passaggi banali, come dicono i Veri Matematici.

F + V = S + 2 (formula di Eulero)
3F + 3V = 3S + 6 (moltiplico tutto per 3)
3S = 3F + 3V − 6 (ricavo 3S)
3S ≤ 2S + 3V − 6 (per quanto detto sopra, 3F ≤ 2S)
S ≤ 3V − 6 (sottraggo 2S a destra e a sinistra)
2S ≤ 6V − 12 (moltiplico tutto per 2).

Risultato: il doppio del numero di spigoli nel grafo è minore o uguale di 6V − 12.

Domanda: è possibile che ogni vertice sia connesso a almeno altri sei vertici? Se così fosse, il totale degli spigoli moltiplicati per 2 dovrebbe essere uguale a almeno 6V. Dato che 6V − 12 non può essere uguale a 6V, la risposta alla domanda è no.

Quindi esiste almeno un vertice connesso con altri cinque vertici al massimo.

Nel 1879 il matematico Alfred Kempe annunciò di aver dimostrato il teorema dei quattro colori. Solo undici anni dopo, nel 1890, Percy Heawood si accorse di un errore nella dimostrazione di Kempe. Nel farlo, notò il particolare di cui abbiamo discusso ora (e cioè che deve esistere almeno un vertice dal quale escono al più cinque spigoli) che aprì le porte alla dimostrazione del teorema dei cinque colori. Ovvero: cinque colori sono sufficienti per colorare una carta geografica.

Per dimostrarlo non servono né computer né pagine e pagine di dimostrazioni.

martedì 7 ottobre 2014

Il teorema dei quattro cinque colori — grafi planari

Il teorema dei quattro colori è famoso, facile da enunciare, difficilissimo da dimostrare (tant'è che qualcuno ancora discute sulla validità della sua dimostrazione). Dice che sono sufficienti quattro colori per colorare una qualsiasi carta geografica in modo tale che due territori confinanti non siano colorati con lo stesso colore.

Naturalmente i Veri Matematici non dicono così: non parlano di carte geografiche (per le quali sicuramente si riuscirebbe a trovare qualche strana configurazione che nemmeno i cartografi più assatanati avrebbero mai immaginato di vedere), ma parlano di grafi planari.

I grafi planari sono molto semplici da descrivere: sono costituiti da un po' di oggetti (vertici) collegati da un po' di segmenti, anche curvilinei (detti spigoli, o archi). Cose così, insomma:



Alcuni grafi possono essere rappresentati senza intersezioni tra gli spigoli, altri no. Per esempio il grafo completo (cioè con tutti i possibili collegamenti) con 4 elementi è fatto così:


e basta poco per capire che si può evitare l'intersezione tra i due spigoli interni riarrangiando un pochino il disegno:


(si può fare anche lasciando la configurazione dei vertici un pochino più simmetrica, ma il programma che sto usando non lo fa in automatico e non so come fare per fargli fare quello che voglio io, quindi pazienza)

Esistono grafi non planari, cioè che non possono in nessun modo essere rappresentati sul piano senza intersezioni tra gli spigoli. Un teorema importante di teoria dei grafi (teorema di Kuratowski) afferma che se un grafo contiene almeno un sottografo omeomorfo (cioè avente la stessa forma) a uno dei due disegnati qua sotto, allora non è planare.


Questo qui sopra è il grafo completo con 5 vertici (per gli amici, K5).


E quest'altro è il famoso grafo relativo al giochino delle tre case che devono essere raggiunte dai tre fornitori di servizi (acqua, luce e gas, per esempio). Sono entrambi non planari, naturalmente.

Quindi, riassumendo, le carte geografiche di cui si occupa il teorema dei quattro colori sono grafi
  • planari, 
  • connessi (una carta geografica potrebbe avere due continenti disconnessi, separati da un oceano, ma questo non ci dà fastidio: il nostro problema è colorare un continente alla volta), 
  • semplici, cioè tali che due vertici sono connessi da al massimo un solo spigolo (non ha senso dire che i due stati A e B confinano due o più volte, insomma).


E per questo tipo di grafi è valida la seconda più bella formula della matematica, ovvero Facce più Vertici = Spigoli più 2. Dove con facce intendiamo le regioni delimitate dai bordi, compresa quella esterna che ha estensione infinita.

Dopo tutte queste belle definizioni, e grazie anche a Eulero, dimostrare il teorema dei quattro colori dovrebbe essere molto facile.

lunedì 15 settembre 2014

Una serie di fortunati eventi

Sei anni fa lui aveva 11 anni e io stavo leggendo La Strada. Dopo pochi giorni commentavo: "non ho mica ancora capito se mi è piaciuto o no".

Pochi giorni fa lui ha compiuto 18 anni e io ho assistito a una conferenza di Massimo Recalcati al festival della filosofia di Modena, dal titolo Il modello paterno.

Recalcati ha iniziato parlando dell'evaporazione del concetto di padre, così come lo si intendeva una volta. E fin qua ok. Ha poi aggiunto che la figura del padre è comunque ancora oggi necessaria perché è solo attraverso l'incontro con l'esperienza del limite che si può fare esperienza del desiderio. E qui i padri già cominciano a drizzare le orecchie per provare a capire il loro nuovo ruolo.

Poi è arrivato a parlare di Telemaco, che è il figlio che sa fare esistere il padre (al contrario di Edipo), come Cristo che salva Dio (citando Lacan che, io, ho sentito nominare per la prima volta in quel momento). Per me Cristo che salva Dio è un concetto molto illuminante, uno di quei pensieri sotto traccia che ti girano per la testa senza che tu te ne renda conto.

Poi, Recalcati ha paragonato questo capovolgimento teologico a quello che succede nella storia raccontata da La Strada, in cui la vita del bambino senza nome in un mondo senza Dio rende ancora possibile l'esistenza di Dio.

In quella storia è il figlio che salva il padre.

E questa frase, il figlio che salva il padre, dopo tutto quello che ti è successo da quando lui aveva 11 anni e tu leggevi La Strada, e vedevi proprio lui nel bambino senza nome, questa frase ha evitato tutti i filtri vulcaniani che ti eri fabbricato nel corso della vita, è andata diretta alla pancia, ti ha colpito come mai ti saresti aspettato, e ti ha commosso oltre ogni misura (e dignità di uomo adulto in piedi in mezzo a piazza Grande, ma vabbé).

Dunque buon compleanno, salame che non sei altro. Benvenuto nella maggiore età. E grazie.

domenica 7 settembre 2014

Ma chi l'ha detto che meno per meno fa più?

Eh, la famosa regola del prodotto (e della divisione) dei segni dice che meno per meno fa più, ma perché è così? Perché il prodotto di due numeri negativi deve essere positivo? Perché non negativo al quadrato, per dire? (No, ok, vabbé).

Emma Castelnuovo suggeriva una presentazione, ai fanciulli alle prese per la prima volta con questa domanda, fatta utilizzando un cartoncino colorato con due colori diversi sui due lati. Facciamo blu e rosso.

Interpretiamo la moltiplicazione 2×3 come il calcolo dell'area del suddetto cartoncino rettangolare: se la base è lunga 2 e l'altezza 3, allora l'area sarà 6, e fin qua è facile. Il cartoncino ha la faccia blu verso l'alto, e diciamo che blu = positivo. Mettiamolo su un riferimento cartesiano.



Adesso immaginiamo di sostituire 2 con −2. Cosa significa, dal punto di vista geometrico?

Significa che dobbiamo girare il cartoncino, tenendo fissa l'altezza, in modo che la base ora si estenda lungo la parte negativa dell'asse delle ascisse. Il cartoncino si è capovolto, e ora presenta l'altra faccia. Rosso = negativo. Quindi −2×3 = −6, meno per più fa meno.




Ovviamente se giriamo il cartoncino lungo l'altra direzione, tenendo quindi fissa la base, otteniamo il risultato di 2×(−3), che fa ancora −6, e la proprietà commutativa è assicurata.

Infine, cosa succede se ruotiamo il cartoncino due volte, una tenendo fisso l'asse orizzontale e l'altra tenendo fisso quello verticale? Facile, il cartoncino ruota due volte, andrà a finire nel terzo quadrante, e presenterà però nuovamente la faccia blu. Ecco la magia: −2×(−3)=6, meno per meno fa più.



Ok, questo per i fanciulli. Così si capisce, e probabilmente non si dimentica. Ma un Vero Matematico cosa dice? Mica si mette a giocare coi cartoncini, no? Dov'è il rigore? E poi cosa c'entra la geometria?

Ebbene, i Veri Matematici utilizzano un principio fondamentale, quello che dice la matematica è come il maiale: non si butta via niente (in realtà loro lo chiamano principio di permanenza, o principio di Henkel (questo l'ho scoperto ieri)).

In pratica funziona così: da bambini impariamo a contare, da grandi definiamo l'insieme dei numeri naturali (in pratica rifacciamo la stessa cosa in modo complicato), poi scopriamo delle belle proprietà, ci affezioniamo e vogliamo che esse continuino a essere valide anche quando allarghiamo le nostre definizioni. Definisco i numeri negativi? Bene, però attenzione, per essi devono valere le stesse proprietà che valevano prima, eh. Anzi, se definisco cose nuove devo stare bene attento a non introdurre eccezioni alle regole che già conoscevo prima. In matematica non esiste l'eccezione che conferma la regola, proprio no.

E quindi ora consideriamo la proprietà distributiva del prodotto rispetto alla somma, quella che dice che per calcolare 2×(3 + 4) si può calcolare 2×7 oppure 2×3 + 2×4. In formule:

a×(b + c) = a×b + a×c.

Questa proprietà vale nell'insieme dei numeri naturali, e quando introduciamo i numeri interi desideriamo che essa sia ancora valida. Anzi, estendiamo le regole per questi numeri in modo che sia valida: lo facciamo proprio volontariamente, con questo scopo. E ora applichiamo la proprietà distributiva a questa espressione:

a×(− b) [immaginamo per comodità a e b positivi, senza segni nascosti]

Conosciamo naturalmente già il risultato: sarà 0, dato che − b fa 0. Cosa succede però se applichiamo la proprietà distributiva? Vediamo:

0 = a×(− b) = a×b + a×(−b).

Ma allora a×b e a×(−b) devono essere opposti, dato che il risultato è nullo. Quindi, siccome sappiamo già che a×b è positivo (questi sono i vecchi numeri naturali), allora a×(−b) deve essere negativo. Più per meno deve fare meno.

Infine, consideriamo quest'altra operazione:

a×(− b).

Anche questa deve fare 0, e anche in questo caso, applicando la proprietà distributiva, abbiamo

0 = −a×(bb) = −a×b + (−a)×(−b). Dato che i due termini finali sono opposti, e dato che sappiamo già che −a×b è negativo, è necessario che (−a)×(−b) sia positivo. E così tutto funziona bene, non si può fare altrimenti.

(Poi non dite che i numeri sono creazione della mente umana, eh)

martedì 5 agosto 2014

Codici PIN di quattro cifre che potreste voler utilizzare

0042

Lo sapete tutti, è la risposta alla Domanda Fondamentale sulla Vita, sull'Universo e Tutto quanto.

"Quarantadue!" urlò Loonquawl. "Questo è tutto ciò che sai dire dopo un lavoro di sette milioni e mezzo di anni?"
"Ho controllato molto approfonditamente," disse il computer, "e questa è sicuramente la risposta. Ad essere sinceri, penso che il problema sia che voi non abbiate mai saputo veramente qual è la domanda."


1138

È il numero preferito da Lucas. Da quando esiste Jar Jar Binks, però, non so quanti possano seriamente desiderare di utilizzare questo numero.


1337

Nella codifica leet, si legge leet.


1701

NCC-1701 è il numero di matricola della nave stellare Enteprise, classe Constitution.


1969

Questo è l'unico numero naturale n minore di 4000000 per il quale la funzione standard di Ackermann modulo n non si stabilizza.

Ma è anche l'anno in cui l'uomo ha messo piede sulla luna, eh.


3435

È l'unico numero per il quale la somma delle sue cifre elevate a un esponente uguale a loro stesse è uguale al numero stesso. Si fa prima a scrivere la formula:

33 + 44 + 33 + 55 = 3435.

(No, non è vero, non è l'unico numero di questo tipo, l'altro è 1, ma vabbé. Comunque si chiamano numeri di Münchhausen, perché si elevano da soli, come l'omonimo barone)


5141

Questo è l'unico numero che, rovesciato e letto in esadecimale, rimane uguale a sé stesso.

514110 = 141516.


6174

È la costante di Kaprekar. Funziona così:

  1. prendete un numero qualsiasi di quattro cifre, usando almeno due cifre diverse,
  2. ordinate le cifre in ordine decrescente e in ordine crescente, ottenendo (altri) due numeri
  3. sottraete il più piccolo dal più grande
  4. ripetete i passi 2 e 3

Dopo al massimo sette passi si arriva a 6174, e da lì non ci si muove più.


(Via Facebook)

lunedì 28 luglio 2014

Particelle familiari



Recensione breve: ho letto il libro Particelle familiari di Marco Delmastro e mi è piaciuto, leggetelo.

Recensione lunga: Marco Delmastro è un fisico che lavora a ATLAS, uno degli esperimenti del CERN che ha osservato il (un?) bosone di Higgs. In questo libro racconta cosa fa un fisico sperimentale, come fa a osservare particelle così piccole e elusive che anche solo il termine "osservare" assume significati nuovi.

Il libro è dedicato a chi non sa niente di fisica e vorrebbe saperne qualcosa di più, vorrebbe capire: non contiene formule, non contiene figure, non contiene spiegoni complicati. Le figure, però, Marco le mette sul suo blog, assieme a spiegazione più dettagliate per i più curiosi (con anche qualche formula, sì). Più che una relazione scientifica (cosa che non vuole essere), è un racconto, che parla della famiglia e degli amici di Marco, cioè gente normale (nel senso positivo del termine, se esiste, e se non esiste ho sbagliato termine) che cerca di capire cose speciali. Speciali e stranissime come quelle descritte dalla meccanica quantistica, per la quale onde e particelle sono un po' la stessa cosa e tu, ogni volta che leggi questa cosa, continui a chiederti ma come è possibile, ma cosa vorrà poi dire davvero questa cosa qui?

E a te piacciono tanto, le domande di questo tipo, che vorresti sapere tutto, e vorresti anche che LHC, l'acceleratore di particelle che spacca tutto, non fosse mai spento, e vorresti che ne accendessero uno ancora più grande, e che le scoperte eccezionali venissero annunciate più spesso. Poi ti dici che non sarebbero più eccezionali, e quindi pazienza. E allora arrivi alla fine del libro, spinto da questo desiderio di conoscenza, e ti trovi un capitolo finale che si intitola A che cosa serve? e che ti spiega qual è il senso della ricerca fondamentale. Che assomiglia un po' al senso della ricerca in matematica (che, in effetti, matematica e fisica teorica non sono mica tanto diverse, poi i matematici vincono perché non hanno bisogno di verificare nessuna teoria, e il metodo scientifico lo lasciano ai fisici, appunto, che costruiscono macchine gigantesche e meravigliose per capire se le cose sono proprio così come pensavano oppure no, mentre i matematici li stanno a guardare sogghignando con aria di giusta superiorità). Assomiglia anche alle domande che ti fanno gli studenti, quando dicono prof ma a cosa ci serve questa roba nella vita di tutti i giorni? E, poi, qua non ti sbagli, passano le generazioni ma ti fanno sempre quell'esempio, non lo cambiano mai, ti chiedono a cosa serve il quadrato di binomio quando vai a fare la spesa, e tu tiri un sospiro e cominci la tua predica.

E ti fermeresti anche qua, in questa recensione un po' strana, ma poi è successo che prima che tu finissi di leggere il libro è arrivato Peppe che ha scritto pure lui una recensione, che ti ha stupito nella sua parte finale, perché in quel momento non la capivi del tutto. Poi hai finito anche tu il libro, e sarà magari per la tua particolare e strana situazione personale in cui ti trovi in questo momento, sarà l'anzianità che ormai si fa avanti e ti rende sensibile a cose che prima non ti facevano né caldo né freddo, sarà il caldo, sarà Ulisse, fatto sta che la parte più bella ti è sembrata proprio la fine, quella delle navi volanti che arrivano fino alle stelle, del respiro profondo e del sorriso, che prima o poi arriverà, sicuro.

Se non si è capito, pazienza, leggete il libro. Costa 13 euro e 60, da Amazon.

lunedì 30 giugno 2014

Il senso di Newton per le cose piccole (e in movimento)

Newton era uno di quelli che ha sviluppato le basi dell'analisi matematica senza utilizzare il calcolo dei limiti (e per questo andrebbe venerato da tutti gli studenti di matematica) — l'altro era Leibniz. Questi due signori giocavano in modo non tanto rigoroso con gli infinitesimi e gli infiniti, procurandosi anche qualche critica da parte di alcuni colleghi. Eppure le cose funzionavano, e anche bene.

Per esempio, dice Newton, prendiamo il Sole e un pianeta che gli orbita intorno: la Terra, se volete. E facciamo subito un disegnino. Ah, prima che mi dimentichi, sapete tutti che due triangoli che hanno la stessa base e la stessa altezza hanno anche la stessa area, vero?

Mh, no, l'avevamo soltanto accennato alle elementari, risponde uno studente casuale che passava di lì. Vabbé, adesso lo sai, risponde Newton fulminandolo con lo sguardo.

E, dato che conosce i suoi polli, Newton fa anche un disegno:



Ecco, siamo d'accordo? Il triangolo rosso e quello blu hanno la stessa area, giusto? Bé, no, dice lo studente che si è svegliato in quel momento, è evidente che quello blu è più grande.

Ma no! urla Newton, lanciandogli una copia degli Elementi di Euclide dritta sul naso, a occhio forse vedi che il perimetro del triangolo blu è maggiore, ma a scuola hai anche dimostrato che questi due triangoli hanno la stessa area! E senza tirare fuori le dimostrazioni di Euclide, ti ricorderai almeno come si calcola l'area di un triangolo, vero?

Ehm, certo, sì, base per altezza…



Ehm.

Diviso due!

Diviso due, stavo per dirlo!

Bene. Quindi se due triangoli hanno la stessa base e la stessa altezza, siamo d'accordo sul fatto che hanno la stessa area?

Eh, sì.

Stabilita questa importante verità matematica, Newton procede nel suo ragionamento, disegnando il Sole e la Terra. Poi continua dicendo ecco, vedete, noi dobbiamo immaginare che il Sole non eserciti in continuazione la sua forza attrattiva. Immaginiamo per un momento che il Sole agisca per impulsi.

Impulsi? Domanda il pubblico.

Sì, ogni tanto il Sole dà uno strattone alla Terra, zacchete, poi per un po' di tempo è come se non ci fosse, poi un nuovo strattone, e così via.

Ah, va bene, ma ogni quanto? Perché non è mica così che funziona, gli domandano.

Ogni poco, fate finta che il tempo tra un impulso e l'altro sia infinitesimo.

E cosa vuol dire? Cosa sono mai questi infinitesimi? Sono quantità reali? Sono zeri?

Senta, lei, signor vescovo, con tutto il rispetto, la battuta sui fantasmi di quantità defunte l'ha già fatta, mi lasci lavorare che le cose funzionano bene anche se la matematica che lei ha in mente non si è ancora adattata. Allora, guardate un po' questa figura: qui abbiamo la Terra che si muove per un po' di moto rettilineo uniforme, dato che su di essa non agiscono forze.



Dopo che ha percorso un po' di strada…

Un tratto infinitesimo, ah!

Sì, è così, un tratto infinitesimo, e la smetta di intervenire, sa? Dopo questo tratto il Sole manda il suo impulso, che disegno qua in rosso. Senza questo impulso la Terra proseguirebbe ancora di moto rettilineo uniforme, ma l'impulso fa deviare la traiettoria, che rappresento in questo modo. Ecco, vedete? La Terra finirebbe qui, dove la disegno in azzurro chiaro, ma la presenza della forza attrattiva la fa finire qui, dove disegno la freccia rossa.





E adesso? Domanda il pubblico.

E adesso vi disegno un po' di triangoli. Vedete questi due triangoli blu? Hanno la base uguale, formata dai due vettori blu, e la stessa altezza. Uhm, vedo dall'espressione spenta dello studente là nell'ultimo banco che non ha mica capito. Aspetta che disegno anche l'altezza comune. Si capisce, adesso?



Lo studente annuisce silenzioso, e Newton continua: bene, abbiamo quindi due triangoli con la stessa area. State attenti adesso, eh? Ora tengo in evidenza uno di questi due triangoli, quello più in alto, e ne disegno un altro, in arancione. Guardate bene: anche questi due triangoli hanno la stessa base e la stessa altezza. A beneficio del nostro studente che si è addormentato di nuovo disegno anche qui l'altezza (povero me): ecco fatto, questi due segmenti verdi sono uguali, e sono le due altezze dei triangoli.


Il triangolo arancione ha dunque la stessa area del triangolo blu. Riassumendo il tutto in questa nuova figura, possiamo dire che il triangolo blu inferiore e quello arancione hanno la stessa area:



Da cui possiamo dedurre la legge nota come seconda legge di Keplero: il segmento che unisce il centro del Sole con il centro della Terra (o di qualunque altra coppia di corpi celesti) descrive aree uguali in tempi uguali.

Perché, come potete ben immaginare, se noi ripetiamo questo procedimento per infiniti istanti di tempo infinitesimi, riusciamo a ricostruire tutta l'orbita del pianeta.

Argh!

Portate i sali al vescovo, mi sembra che sia svenuto.




Mi perdonino Newton e il vescovo Berkeley. Tutto questo post nasce dall'aver trovato un'animazione fatta da un mai abbastanza lodato wikipediano, LucasVB, che ho già citato in passato. Eccola qua, una bella dimostrazione senza parole.