Modena non è stata particolarmente colpita dai terremoti di questi giorni (qui è consentito anche ai più scettici mettere in atto qualunque tipo di gesto o attività apotropaica): abbiamo sentito le scosse, qualche edificio ha messo su un po' di crepe, nel centro storico è caduta una palla di marmo dal tetto di una chiesa che ha travolto le linee del filobus e ha lasciato un buco sul marciapiede, ma, alla fine, niente di irreparabile.
Non è andata così bene più a nord, nella cosiddetta bassa. Avete letto gli articoli, avete sentito i telegiornali, avete visto le foto: un disastro. La seconda scossa, quella di ieri, è stata brutta.
Io ero in classe, era appena suonata la campana, stavo per uscire, tutti erano in piedi, qualcuno voleva sapere come fare per rimediare ai suoi voti, qualcuno voleva uscire, qualcuno stava chiacchierando, tutti abbiamo sentito il pavimento saltellare. Ho in mente un fermo-immagine, tutti che mi guardano a bocca aperta, mentre cerchiamo di renderci conto di quello che succede, poi qualcuno si muove, sposta una sedia, ma non vuole essere il primo a mettere la testa sotto al banco perché a sedici anni se metti la testa sotto il banco fai brutta figura. E allora io urlo "tutti sotto i banchi!" e mentre mi fiondo sotto la cattedra vedo che tutti quanti si stanno mettendo al riparo, per quanto un banco possa essere considerato un riparo.
E là sotto, con una mano appoggiata sul pavimento, sento muovere tutto e sento i due studenti che stanno nei due banchi davanti alla cattedra che dicono "ma non finisce più!", e io dico "zitti!", "state zitti!", e non so bene perché lo dico, cosa c'è poi da ascoltare, e poi anche loro cominciano a dire "sshht, zitti!", forse vogliamo capire se la scuola starà in piedi, o forse vogliamo poter sentire se qualcuno chiama perché ha davvero bisogno, chissà.
Poi il tempo, che in quei momenti è dotato di vita propria e fa un po' quel che gli pare, finalmente passa e le scosse si fermano. Ci alziamo, si sentono le tre campane, e io dico "andate giù", e poi urlo "PIANO, NON CORRETE!", che mi ricordo ancora di quel terremoto di sedici anni fa, quando non esisteva un piano di evacuazione per la scuola, quando non si mettevano le teste sotto ai banchi, quando si correva fuori alla disperata, e c'era quella ragazza che era rimasta un po' indietro rispetto ai compagni, si era messa a correre nell'atrio vuoto, ed è caduta a terra. Non si è fatta nulla, ma il panico è una brutta bestia.
Io ho raccolto le mie cose e sono uscito, ho cercato gli studenti e ho fatto l'appello per vedere se c'erano tutti. Il punto di ritrovo era nel parco dell'istituto di riposo che si trova di fronte alla nostra scuola: lontano dagli edifici, sull'erba, all'ombra degli alberi, aveva un'atmosfera surreale. E la sensazione di essere in uno strano mondo mi ha accompagnato per tutto il giorno, e poi anche per la notte e il giorno dopo, cioè oggi. I telefoni non andavano, qualcuno è riuscito a fare qualche telefonata utilizzando una cabina telefonica (ne esistono ancora, sì), le auto non giravano. Quando mi ha telefonato mia moglie, da Carpi, sentivo un elicottero, delle sirene, lei che mi diceva che ci sarebbe voluto un po' per tornare a casa, visto che le strade erano intasate.
Una volta consegnati gli studenti ai loro parenti ho preso la bicicletta e me ne sono andato a casa. Ho attraversato due parchi, pieni zeppi di gente. Bambini che giocavano, biciclette, persone sedute sull'erba, carrozzine, passeggini, ragazzi più grandi che chiacchieravano. Era bellissimo, non avevo mai visto così tanta gente al parco, sembrava una giornata di festa. E mi ripetevo che non era vero, che c'era gente che aveva paura, che erano arrivate notizie di morti e di crolli, eppure non potevo fare a meno di pensare che sarebbe stato bello se tutte le giornate fossero state così, con la gente al parco che si chiede "come va?", che si dà una mano, che si aiuta.
I miei genitori si erano preoccupati di prelevare i nipoti da scuola, e li avevano raccolti tutti in cortile. Li ho visti giocare, li ho salutati, ho tirato fuori il telefono e mi sono attaccato a internet, per capire un po' cosa stesse succedendo.
Leggendo, trovavo notizie spaventose, e durante tutta la giornata ho cercato di informarmi, ho mandato email ad amici che abitano a Carpi e dintorni, ho guardato carte geografiche piene di puntini e stelline, ho letto la lista delle ultime scosse, e mi rendevo conto che a pochi chilometri di distanza c'era il disastro.
Nel pomeriggio vado a casa, arriva mia moglie, ce ne stiamo seduti su un paio di panchine, parliamo con altre persone che abitano nel nostro condominio. Che si fa stanotte? Qualcuno dormirà in macchina, qualcuno in casa sul divano, qualcuno non lo sa ancora. Mi telefona un amico e mi dice che se ne va con tutta la famiglia in montagna, tanto le scuole sono chiuse; lui poi tornerà a Modena il giorno dopo, vediamo come va la notte.
Già, la notte. Io ho lo sportello di un armadio che è un sismografo sensibilissimo, e quando sento quel rumore le pulsazioni mi vanno a mille (e mi succede da quando, sedici anni fa, ho scoperto mio malgrado questa caratteristica). Mia moglie mi propone di montare una tenda nel prato dietro casa, i figli sono ben felici, e allora via che si monta la tenda.
Prima di andare a dormire raccolgo un po' i pensieri, mi rivedo la studentessa quasi in lacrime che aveva paura di tornare in casa, lo studente sperduto che sarebbe dovuto tornare a casa con la corriera, ma le strade erano bloccate, i figli e i nipoti che in un lampo si infilano sotto la tavola mentre io sono ancora lì che mi chiedo "ma sarà un'altra scossa, o è solo un'impressione?" (era un'altra scossa), le ambulanze, gli elicotteri, la collega che abita nella zona dell'epicentro e non ha notizie, e mi sento un po' in colpa. Perché io posso dormire in tenda sotto casa, mentre qualcuno deve dormire in tenda perché la casa non ce l'ha più.
E allora, tra la paura che non passa, e il pensiero di essere ancora uno dei fortunati, mi pare di essere come il soldato che sta nelle retrovie. Un po' sollevato perché non è coinvolto direttamente, ma terrorizzato perché a trenta chilometri più a nord c'è la guerra.
mercoledì 30 maggio 2012
mercoledì 23 maggio 2012
Una cosa divertente che non farò mai più
Mi sono trovato in casa questo libro:
Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, 12.50€
e me lo sono preso dietro per avere qualcosa da leggere durante una trasferta a Milano per i giochi matematici organizzati dalla Bocconi (dove ho finalmente incontrato .mau., ma questa è un'altra storia).
Non avevo mai letto niente di David Foster Wallace, ed è stata una piacevolissima scoperta. Anobii raccoglie, al momento, 420 recensioni su questo libro, e quindi non starò a tirarla tanto per le lunghe: si tratta della cronaca di una settimana di crociera extra-lusso commissionata all'autore dalla rivista Harper's — inizialmente doveva trattarsi di un semplice articolo, che poi si è trasformato in un volume di 149 pagine.
Il racconto è umoristico, scritto con uno stile meraviglioso, denso di satira e critica nei riguardi dello stile di vita delle crociere da ricconi. Da leggere (ma lo avrete già letto tutti).
Pagherei per sapere scrivere così.
Una cosa divertente che non farò mai più, Minimum Fax, 12.50€
e me lo sono preso dietro per avere qualcosa da leggere durante una trasferta a Milano per i giochi matematici organizzati dalla Bocconi (dove ho finalmente incontrato .mau., ma questa è un'altra storia).
Non avevo mai letto niente di David Foster Wallace, ed è stata una piacevolissima scoperta. Anobii raccoglie, al momento, 420 recensioni su questo libro, e quindi non starò a tirarla tanto per le lunghe: si tratta della cronaca di una settimana di crociera extra-lusso commissionata all'autore dalla rivista Harper's — inizialmente doveva trattarsi di un semplice articolo, che poi si è trasformato in un volume di 149 pagine.
Il racconto è umoristico, scritto con uno stile meraviglioso, denso di satira e critica nei riguardi dello stile di vita delle crociere da ricconi. Da leggere (ma lo avrete già letto tutti).
Pagherei per sapere scrivere così.
mercoledì 9 maggio 2012
Ho visto cose
Quest'anno ho vinto il pacchetto completo per i giochi matematici: ho accompagnato uno studente alle finali delle Olimpiadi della Matematica a Cesenatico, una squadra alle semifinali, sempre a Cesenatico, e uno studente (quello di cui sopra) per le finali Kangourou a Cervia-Mirabilandia.
Ho potuto quindi osservare da vicino e per molto tempo il mondo dei giochi matematici. E sono giunto a una conclusione: il mondo dei giochi matematici contiene la quintessenza della nerditudine.
Ho visto un ragazzo risolvere un cubo di Rubik dietro la schiena. Ne ho visto un altro far girare alcune palline in aria, alla maniera dei giocolieri, mentre attendeva l'inizio della gara.
Ne ho visto uno scendere le scale con un monociclo (era uno dei miei, tra l'altro, uno che come sport pratica il basket su monociclo, per dire).
Ho visto l'impegno e la serietà di una ragazza che, per conciliare tutte le sue attività, è venuta nel pomeriggio a Cesenatico, ha svolto la gara, e a mezzanotte se ne è tornata a casa (ciao, M.).
Ho visto studenti scrivere formule sui tovaglioli del ristorante (anche insegnanti (ero io, sì)), sfogliare libri contenenti quesiti matematici, chiedere di fare più allenamenti il prossimo anno scolastico, e persino promettere di parteciparvi.
Ho visto un insegnante manifestare il suo disappunto perché la partenza al venerdì mattina gli ha impedito di guardare l'episodio appena uscito di The Big Bang Theory (ero ancora io, ehm). E ho visto gli studenti dargli ragione.
Ho visto un gruppo di giovani universitari, che facevano parte dell'organizzazione, vestirsi come i personaggi di Dragonball per presentare ai concorrenti l'ambientazione delle gare di quest'anno (c'era pure Majin-Bu, col tentacolo sulla testa).
Ho visto ragazzi e ragazze fare matematica in maniera seria: ne ho visti cinque guadagnare il massimo punteggio perché avevano risolto perfettamente sei quesiti. Quesiti che io riuscirei a risolvere perfettamente in sei settimane (forse). Ho visto l'imbarazzo dell'organizzazione che, probabilmente, avrebbe voluto avere un solo vincitore, e invece ne ha avuti cinque e non è stata in grado di distinguerli. Bé, oltre all'imbarazzo c'era anche una certa felicità, bisogna dirlo.
Ho visto la delusione nei volti degli studenti che, tutti appiccicati alle vetrate sulle quali stavano appendendo le soluzioni, si dicevano uno con l'altro: "ma era così facile?".
Ma è stato quando ho visto alcuni ragazzi che si rilassavano in spiaggia, indecisi tra il parlare ancora di curve algebriche e il rivolgere l'attenzione a curve più naturali, che mi sono reso conto dell'esistenza di una costante universale, dalla quale non sfuggono nemmeno le menti più nerd di questo mondo.
Ho potuto quindi osservare da vicino e per molto tempo il mondo dei giochi matematici. E sono giunto a una conclusione: il mondo dei giochi matematici contiene la quintessenza della nerditudine.
Ho visto un ragazzo risolvere un cubo di Rubik dietro la schiena. Ne ho visto un altro far girare alcune palline in aria, alla maniera dei giocolieri, mentre attendeva l'inizio della gara.
Ne ho visto uno scendere le scale con un monociclo (era uno dei miei, tra l'altro, uno che come sport pratica il basket su monociclo, per dire).
Ho visto l'impegno e la serietà di una ragazza che, per conciliare tutte le sue attività, è venuta nel pomeriggio a Cesenatico, ha svolto la gara, e a mezzanotte se ne è tornata a casa (ciao, M.).
Ho visto studenti scrivere formule sui tovaglioli del ristorante (anche insegnanti (ero io, sì)), sfogliare libri contenenti quesiti matematici, chiedere di fare più allenamenti il prossimo anno scolastico, e persino promettere di parteciparvi.
Ho visto un insegnante manifestare il suo disappunto perché la partenza al venerdì mattina gli ha impedito di guardare l'episodio appena uscito di The Big Bang Theory (ero ancora io, ehm). E ho visto gli studenti dargli ragione.
Ho visto un gruppo di giovani universitari, che facevano parte dell'organizzazione, vestirsi come i personaggi di Dragonball per presentare ai concorrenti l'ambientazione delle gare di quest'anno (c'era pure Majin-Bu, col tentacolo sulla testa).
Ho visto ragazzi e ragazze fare matematica in maniera seria: ne ho visti cinque guadagnare il massimo punteggio perché avevano risolto perfettamente sei quesiti. Quesiti che io riuscirei a risolvere perfettamente in sei settimane (forse). Ho visto l'imbarazzo dell'organizzazione che, probabilmente, avrebbe voluto avere un solo vincitore, e invece ne ha avuti cinque e non è stata in grado di distinguerli. Bé, oltre all'imbarazzo c'era anche una certa felicità, bisogna dirlo.
Ho visto la delusione nei volti degli studenti che, tutti appiccicati alle vetrate sulle quali stavano appendendo le soluzioni, si dicevano uno con l'altro: "ma era così facile?".
Ma è stato quando ho visto alcuni ragazzi che si rilassavano in spiaggia, indecisi tra il parlare ancora di curve algebriche e il rivolgere l'attenzione a curve più naturali, che mi sono reso conto dell'esistenza di una costante universale, dalla quale non sfuggono nemmeno le menti più nerd di questo mondo.
martedì 1 maggio 2012
Il teorema cinese del resto spiegato ai bambini
Mamma Orsa, Babbo Orso e Piccolo Orso se ne stavano tornando verso casa dopo una piacevole passeggiata nel bosco.
Passando vicino a un cespuglio di more, Piccolo Orso si accorse di una serie di impronte: erano di uno strano animale, ma visto prima di allora.
«Vado io per prima!», esclamò Mamma Orsa, posizionandosi sulla quinta impronta un po' preoccupata.
«Tu stai nel mezzo, Piccolo Orso», disse Babbo Orso a Piccolo Orso che, obbediente, si mise sulla terza impronta.
«Io starò in fondo alla fila», concluse Babbo Orso, sistemandosi sulla prima impronta.
Mamma Orsa si incamminò lungo il sentiero; ogni suo passo era lungo tanto quanto la distanza tra 7 delle piccole orme presenti sul terreno.
I passi di Piccolo Orso erano invece più corti: ognuno di essi copriva la distanza di 5 piccole orme.
Babbo Orso era quello che faceva i passi più lunghi: addirittura 9 orme.
«Ehi, mamma!», chiamò Piccolo Orso, «se vai così in fretta non riesco a starti dietro».
«Non ti preoccupare, Piccolo Orso», rispose Mamma Orsa, «ti aspetto».
«Ma io vorrei venire vicino a te!», disse Piccolo Orso.
«E perché non ci riesci? Non sto andando veloce», domandò Mamma Orsa.
«Eh, perché i miei passi non sono mai pari ai tuoi. Arriveremo mai sulla stessa impronta di questo strano animale?», domandò curioso Piccolo Orso. «Vorrei che anche il Babbo fosse vicino a noi».
«Sono qui dietro, Piccolo Orso», lo rassicurò Babbo Orso, «non ti preoccupare. Vuoi fare un gioco?».
«Uh, sì, sì!», rispose contento Piccolo Orso. «Come si gioca?».
«Giochiamo a indovinare quando riusciremo ad essere tutti vicino alla Mamma», la buttò lì Babbo Orso, cercando di camuffare un problema matematico in un gioco per bambini.
«Babbo, non mi freghi! Questo non è un gioco, è un problema!», rispose Piccolo Orso che, anche se era ancora piccolo, non era uno sprovveduto.
«Ma sì, è uno dei soliti problemi di tuo padre», intervenne Mamma Orsa, «per lui sono giochi, non capisce bene la differenza tra le due cose. Lascialo fare, magari è divertente».
«Va bene», disse rassegnato Piccolo Orso. «Siamo sicuri che io posso arrivare di fianco alla Mamma? Perché mentre io faccio un passo da 5 impronte, lei ne fa uno da 7, rimango sempre indietro di 2 impronte!».
«Hai ragione, Piccolo Orso», gli rispose Babbo Orso, «ma ricordati che puoi anche fare una corsetta: se invece di un solo passo ne fai due, non rimani più indietro di 2 impronte, ma sei in vantaggio di 3!».
«Hai ragione, Babbo!», commentò felice Piccolo Orso.
«Allora», continuò Babbo Orso, «ricordati che quando sei partito eri, rispetto alla Mamma, indietro di 2 impronte. Col primo passo la vostra distanza è aumentata a 4 impronte, poi a 6. Ecco fatto!».
«Cosa?», domandò Piccolo Orso.
«Se la distanza è di 6 impronte, puoi raggiungere la Mamma facendo per due volte una corsa: se per ognuno dei due successivi passi della Mamma tu ne fai due, guadagni ogni volta 3 impronte, e quindi riesci a raggiungerla», spiegò Babbo Orso. «Riesci a dirmi a che punto vi incontrerete?».
«Credo di sì», rispose Piccolo Orso, pensieroso. «Devo fare in tutto sei passi, per un totale di 30 impronte. Ero partito dalla numero 3, quindi la incontrerò alla numero 33, giusto?».
«Giusto! Sei stato molto bravo, Piccolo Orso! La Mamma ha fatto invece in tutto quattro passi, per un totale 28 impronte. Era partita dalla numero 5, quindi anche lei arriva alla numero 33», rispose Babbo Orso.
«E tu riuscirai a raggiungerci, Babbo?», domandò Piccolo Orso.
«Certo», rispose Babbo Orso. «Vedi, dall'impronta 33 in poi tu e la Mamma è come se vi muoveste insieme con un grande passo lungo 35 impronte».
«Davvero?», domandò ancora Piccolo Orso.
«Eh, sì. La Mamma fa passi lunghi 7 impronte, tu fai dei passi lunghi 5, allora sette passi dei tuoi corrispondono a cinque dei suoi e a un totale di 35 impronte», spiegò Babbo Orso. «Allora, io invece faccio passi lunghi 9 impronte, e quindi ogni quattro passi percorro una distanza di 36 impronte».
«Una più di noi!», esclamò Piccolo Orso.
«Proprio così. Quindi, pian piano, riesco a raggiungervi», concluse Babbo Orso. «Sono partito dalla impronta numero 1, poi sono arrivato alla 10, poi alla 19 e alla 28. Se voi siete alla numero 33, quanti passi dovrò ancora fare per recuperare la mia distanza?».
«Cinque per quattro!», rispose Piccolo Orso. «Cioè venti, e arriverai di fianco a noi!».
«Bravissimo, Piccolo Orso!», esclamò contento Babbo Orso, «dopo venti passi avrò percorso 180 impronte. Dato che ero partito dalla numero 28, arriverò alla 208».
«E io e la Mamma avremo fatto cinque passi giganti da 35 impronte», concluse Piccolo Orso, «e saremo arrivati alla casella 175+33, cioè alla 208. E saremo finalmente tutti insieme!».
«Bravo, Piccolo Orso. Cammina adesso, altrimenti la Mamma non la raggiungiamo più».
Mamma Orsa, Babbo Orso e Piccolo Orso hanno applicato quello che i Veri Matematici chiamano teorema cinese del resto.
Hanno cioè risolto il sistema composto dalle seguenti tre equazioni:
x = 3 mod 5,
x = 5 mod 7,
x = 1 mod 9.
Wikipedia riporta la formula risolutiva universale, ma il metodo utilizzato dalla famiglia Orsi è più carino e comprensibile.
Il tutto proviene da una discussione su Quora, figure comprese.
Passando vicino a un cespuglio di more, Piccolo Orso si accorse di una serie di impronte: erano di uno strano animale, ma visto prima di allora.
«Vado io per prima!», esclamò Mamma Orsa, posizionandosi sulla quinta impronta un po' preoccupata.
«Tu stai nel mezzo, Piccolo Orso», disse Babbo Orso a Piccolo Orso che, obbediente, si mise sulla terza impronta.
«Io starò in fondo alla fila», concluse Babbo Orso, sistemandosi sulla prima impronta.
Mamma Orsa si incamminò lungo il sentiero; ogni suo passo era lungo tanto quanto la distanza tra 7 delle piccole orme presenti sul terreno.
I passi di Piccolo Orso erano invece più corti: ognuno di essi copriva la distanza di 5 piccole orme.
Babbo Orso era quello che faceva i passi più lunghi: addirittura 9 orme.
«Ehi, mamma!», chiamò Piccolo Orso, «se vai così in fretta non riesco a starti dietro».
«Non ti preoccupare, Piccolo Orso», rispose Mamma Orsa, «ti aspetto».
«Ma io vorrei venire vicino a te!», disse Piccolo Orso.
«E perché non ci riesci? Non sto andando veloce», domandò Mamma Orsa.
«Eh, perché i miei passi non sono mai pari ai tuoi. Arriveremo mai sulla stessa impronta di questo strano animale?», domandò curioso Piccolo Orso. «Vorrei che anche il Babbo fosse vicino a noi».
«Sono qui dietro, Piccolo Orso», lo rassicurò Babbo Orso, «non ti preoccupare. Vuoi fare un gioco?».
«Uh, sì, sì!», rispose contento Piccolo Orso. «Come si gioca?».
«Giochiamo a indovinare quando riusciremo ad essere tutti vicino alla Mamma», la buttò lì Babbo Orso, cercando di camuffare un problema matematico in un gioco per bambini.
«Babbo, non mi freghi! Questo non è un gioco, è un problema!», rispose Piccolo Orso che, anche se era ancora piccolo, non era uno sprovveduto.
«Ma sì, è uno dei soliti problemi di tuo padre», intervenne Mamma Orsa, «per lui sono giochi, non capisce bene la differenza tra le due cose. Lascialo fare, magari è divertente».
«Va bene», disse rassegnato Piccolo Orso. «Siamo sicuri che io posso arrivare di fianco alla Mamma? Perché mentre io faccio un passo da 5 impronte, lei ne fa uno da 7, rimango sempre indietro di 2 impronte!».
«Hai ragione, Piccolo Orso», gli rispose Babbo Orso, «ma ricordati che puoi anche fare una corsetta: se invece di un solo passo ne fai due, non rimani più indietro di 2 impronte, ma sei in vantaggio di 3!».
«Hai ragione, Babbo!», commentò felice Piccolo Orso.
«Allora», continuò Babbo Orso, «ricordati che quando sei partito eri, rispetto alla Mamma, indietro di 2 impronte. Col primo passo la vostra distanza è aumentata a 4 impronte, poi a 6. Ecco fatto!».
«Cosa?», domandò Piccolo Orso.
«Se la distanza è di 6 impronte, puoi raggiungere la Mamma facendo per due volte una corsa: se per ognuno dei due successivi passi della Mamma tu ne fai due, guadagni ogni volta 3 impronte, e quindi riesci a raggiungerla», spiegò Babbo Orso. «Riesci a dirmi a che punto vi incontrerete?».
«Credo di sì», rispose Piccolo Orso, pensieroso. «Devo fare in tutto sei passi, per un totale di 30 impronte. Ero partito dalla numero 3, quindi la incontrerò alla numero 33, giusto?».
«Giusto! Sei stato molto bravo, Piccolo Orso! La Mamma ha fatto invece in tutto quattro passi, per un totale 28 impronte. Era partita dalla numero 5, quindi anche lei arriva alla numero 33», rispose Babbo Orso.
«E tu riuscirai a raggiungerci, Babbo?», domandò Piccolo Orso.
«Certo», rispose Babbo Orso. «Vedi, dall'impronta 33 in poi tu e la Mamma è come se vi muoveste insieme con un grande passo lungo 35 impronte».
«Davvero?», domandò ancora Piccolo Orso.
«Eh, sì. La Mamma fa passi lunghi 7 impronte, tu fai dei passi lunghi 5, allora sette passi dei tuoi corrispondono a cinque dei suoi e a un totale di 35 impronte», spiegò Babbo Orso. «Allora, io invece faccio passi lunghi 9 impronte, e quindi ogni quattro passi percorro una distanza di 36 impronte».
«Una più di noi!», esclamò Piccolo Orso.
«Proprio così. Quindi, pian piano, riesco a raggiungervi», concluse Babbo Orso. «Sono partito dalla impronta numero 1, poi sono arrivato alla 10, poi alla 19 e alla 28. Se voi siete alla numero 33, quanti passi dovrò ancora fare per recuperare la mia distanza?».
«Cinque per quattro!», rispose Piccolo Orso. «Cioè venti, e arriverai di fianco a noi!».
«Bravissimo, Piccolo Orso!», esclamò contento Babbo Orso, «dopo venti passi avrò percorso 180 impronte. Dato che ero partito dalla numero 28, arriverò alla 208».
«E io e la Mamma avremo fatto cinque passi giganti da 35 impronte», concluse Piccolo Orso, «e saremo arrivati alla casella 175+33, cioè alla 208. E saremo finalmente tutti insieme!».
«Bravo, Piccolo Orso. Cammina adesso, altrimenti la Mamma non la raggiungiamo più».
Mamma Orsa, Babbo Orso e Piccolo Orso hanno applicato quello che i Veri Matematici chiamano teorema cinese del resto.
Hanno cioè risolto il sistema composto dalle seguenti tre equazioni:
x = 3 mod 5,
x = 5 mod 7,
x = 1 mod 9.
Wikipedia riporta la formula risolutiva universale, ma il metodo utilizzato dalla famiglia Orsi è più carino e comprensibile.
Il tutto proviene da una discussione su Quora, figure comprese.
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