Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge
“Un altro inizio notevole”.
“Sì, potremmo fermarci qua e godercelo”.
“Sarebbe un record sul commento più breve al diciottesimo canto dell'Inferno”.
“Eh, ho capito. Allora andiamo avanti, anche se non troveremo legami con la scienza”.
“Ma immagino che troveremo comunque qualcosa su cui parlare”.
“L'idea è quella, già. Siamo a Malebolge, e questo si era capito. Dante descrive il luogo, dice che c'è una voragine al centro della piana di Malebolge. Il terreno che circonda la voragine è diviso in dieci zone, dieci bolge, divise da fossati come quelli che circondano i castelli. E così come avviene per i castelli, si possono attraversare i fossati grazie ai ponti”.
“I ponti sono importanti”.
“Eh sì”.
“Che succede nelle bolge?”.
“Sono piene di dannati che camminano, di anime in pena che non stanno mai ferme. Per fare un paragone, Dante dice:”.
Nel fondo erano ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman per l’essercito molto,
l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l’un lato tutti hanno la fronte
verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte
“Un altro ponte”.
“Esatto. I romani organizzavano il traffico di pellegrini lungo il ponte come i diavoli dell'inferno organizzano il traffico dei dannati nelle bolge: tutti in ordine, mantenete la destra, avanti, avanti! A un certo punto Dante incontra un volto conosciuto e si ferma a parlare”.
“Chi è?”.
“Venedico Caccianemico”.
“Non lo ricordo dai miei studi scolastici”.
“Mi avvalgo della facoltà di non rispondere a una domanda non fatta. Comunque era un ruffiano”.
“Ah”.
“Il dialogo non dura molto perché a un certo punto arriva un diavolo che scaccia Venedico con una scudisciata, spiegandogli che in quel luogo non son femmine da conio”.
“Benissimo”.
“I due poeti si spostano, attraversano un ponte (ancora ponti, sì) e vedono, in lontananza, Giasone”.
“Quello del vello d'oro?”.
“Quello lì”.
“E qual era la sua colpa?”.
“Giasone viene classificato da Dante come seduttore: racconta in alcuni versi la sua storia, e dice che ingannò la giovanetta Isifile. Dopo essersi divertito lasciolla quivi, gravida, soletta;”.
“Ahi”.
“Il ponte conduce all'argine che fa da confine alla seconda bolgia, nella quale scontano la loro pena gli adulatori, tra cui un altro voto noto a Dante, un tale di nome Alessio Interminelli. Con lui Dante non parla, perché ha fretta di scrivere un po' di parolacce relative alla prossima anima: si tratta di Taide, che viene così descritta:”.
di quella sozza e scapigliata fante
che là si graffia con l’unghie merdose,
e or s’accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse “Ho io grazie
grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.
“Ah però”.
“E qui si chiude il canto”.
“E noi di cosa parliamo?”.
“Di ponti”.
“Benissimo”.
“I ponti non sono un'invenzione recente, anzi”.
“Eh, no”.
“Come fanno a stare in piedi? Perché non cadono?”.
“Beh, hanno dei sostegni, sono fatti di materiali rigidi e resistenti”.
“Sì, vero, ma non basta. Cioè, basta se il ponte è corto, ma se vuoi farlo lungo ti serve ragionare un po' di più. Per esempio, prendiamo un arco: perché non crolla?”.
“Ah, lo so: la forma dell'arco distribuisce le forze lungo il perimetro, in questo modo la spinta viene rediretta lungo i sostegni che si trovano agli estremi dell'arco”.
“Hai mai provato a fare un arco così come dici?”.
“Uhm, no”.
“Perché se provi, ti accorgi che non è mica vero che sta in equilibrio: la spinta laterale fa sì che i due estremi si allontanino tra loro, fino a che l'arco non crolla. Se prendi dei sassi e cerchi di fare un arco appoggiandoti su un tavolo liscio, ti scivola tutto”.
“Ma come?”.
“Eppure è così: la roba scivola”.
“Dato che gli archi stanno in piedi e, di solito, non crollano, ci deve essere una spiegazione”.
“Certo: bisogna impedire che i piedi d'appoggio dell'arco, i piedritti, scivolino verso l'esterno: serve una struttura che lo faccia”.
“Quindi, nel mio ipotetico esperimento coi sassi e il tavolo, io dovrei impedire ai due punti d'appoggio di muoversi”.
“Sì, devi appoggiare altre cose sufficientemente pesanti ai bordi, o dotare di sufficiente attrito i punti di contatto col tavolo”.
“E nelle costruzioni vere come si fa?”.
“Si usano appoggi robusti, o anche forze equilibranti. Per esempio, si costruiscono dei contrafforti o, addirittura, degli archi rampanti”.
“Belli. Ma poi anche quelli avranno una spinta laterale da sostenere, no?”.
“Esatto, ma pian piano quelle spinte vengono dirette verso l'esterno e la loro direzione viene cambiata, in modo tale da farla diventare sempre più vicina alla verticale. Inoltre, per evitare che la parte che sostiene l'esterno dell'arco spanci, si rende la costruzione più robusta aumentando il peso che grava su di essa, con pinnacoli o guglie belle alte”.
“Ah, giusto: una guglia alta non è solo bella, ma ha anche la funzione di essere pesante e stabilizzare tutto”.
“Proprio così. Poi arriva la matematica, che si chiede quale debba essere la forma di un arco in modo tale che le spinte laterali siano minime? Si può fare un arco che sostenga sé stesso senza bisogno di rinforzi?”.
“E si può?”.
“Si può. Il primo a studiare il problema fu Hooke”.
“Quello della legge delle molle?”.
“Quello, che ha studiato un po' tutto quello che c'era da studiare”.
“E cosa ha capito?”.
“Beh, intanto ha avuto l'idea di capovolgere il problema: appendiamo una catena a due sostegni, e vediamo che forma avrà. Capovolgiamo la catena, e questa diventa un arco”.
“Ho già sentito questa storia”.
“Probabilmente in riferimento a Gaudì, che l'ha realizzata magistralmente. Nel museo che si trova di fianco alla Sagrada Familia di Barcellona c'è un modello della chiesa fatto con catene appese: uno specchio sul fondo permette di capovolgere la struttura e osservarla come se fosse un modellino della chiesa stessa”.
“Bello”.
“Quindi un arco che si può sostenere da solo, riducendo al minimo le spinte laterale, è un arco a forma di catenaria, che è il nome dato alla curva formata da una catena appena a due punti”.
“Perché catena? Cioè, perché quel particolare oggetto? Non possiamo dire corda, o filo?”.
“Diciamo catena per sottolineare due aspetti: il primo è che la catena è un oggetto pesante. Non vogliamo che si pensi a un filo ideale senza massa: stiamo parlando di problemi legati al peso degli oggetti. Il secondo motivo è che il peso della catena è distribuito in modo uniforme, non è concentrato da nessuna parte in particolare”.
“Bene, capito”.
“La funzione che descrive la catenaria si chiama coseno iperbolico, ed è formata dalla somma di una funzione esponenziale crescente con una decrescente. Ma tanto vale vederne una, anche se non è formata da una catena in cui la massa è distribuita in modo uniforme:”.
“Woah”.
“Fa un bell'effetto, sì. Dobbiamo fare attenzione a una cosa: questo arco non sostiene nulla, non ci sono pareti sopra, non c'è una passerella: lui è un ponte, se vogliamo, ma non un sostegno. Se lo vogliamo usare come sostegno, immaginando che sopra di esso ci sia una massa distribuita uniformemente, allora dobbiamo cambiare un po' le cose, perché in effetti non si tratta più di una catena”.
“Giusto, le parti laterali devono sostenere più peso. Cambia quindi la forma?”.
“Sì, un pochino. Matematicamente cambia tutto, ma a occhio non è facile vedere la differenza: se l'arco deve sostenere una massa uniformemente distribuita, allora la forma ideale è la parabola. Come a Palau Guell, di Gaudì:”.
“Ah”.
“E quinci sian le nostre viste sazie”.
“Chissà cosa avrebbe detto Dante di questi ponti”.
“Eh, a volte penso se riconoscerebbe in questa struttura una chiesa”.
“E chissà dove avrebbe voluto collocare Gaudì”.
“A volte penso tra gli angeli. Altre volte penso che forse l'avrebbe messo in una delle bocche di Lucifero. Io preferirei tra gli angeli, però”.